FRANCIA: LAICITÀ E DINTORNI |
Non è solo questione di velo |
Qualche giorno fa, passando per un corridoio del Politecnico, vedo una studentessa nordafricana che parla da un telefono pubblico. Porta i pantaloni e ha il velo (hijab) in testa. Pensando alle discussioni in Francia e altrove, immagino una scena: il tutore di una possibile legge le si avvicina, «Signorina, si tolga il velo, è proibito». E lei, con molta gentilezza: «La prego di farsi i fatti suoi». Che senso ha – mi chiedo – che lo stato interferisca sui comportamenti privati dei cittadini, se questi non sono tali da causare danni al bene comune? Negli stessi giorni, il presidente del Senato Pera stabilisce che «velo e crocifisso sono valori intoccabili» (così riassume «il manifesto» 11.2.2004), facendo una bella confusione tra sfera privata e sfera pubblica. E già Ernesto Galli della Loggia («Corriere della Sera» 26.12.2003) aveva sentenziato che la legge francese contro il velo islamico porterebbe «in nome della laicità dello stato a una totale sterilizzazione ideologico-religiosa». Qualcuno arriva a chiedersi se sarà consentito al papa di recarsi in Francia vestito da papa! Ci sono cascato anch’io, ci siamo cascati tutti. I giornali hanno innescato un dibattito pro o contro il velo concentrando l’attenzione su un singolo punto di una questione ben più ampia, e distorcendo il testo stesso della legge francese nel semplice (troppo semplice) «La Francia vieta il velo islamico». Vietati i segni ostensibles, per i minorenni Allora, cominciamo a riassumere i fatti, prima di discuterli. Nel luglio 2003, Jacques Chirac affida a una commissione di personalità indipendenti, presieduta da Bernard Stasi, il compito di «riflettere» sul problema. La Commission de reflexion sur l’application du principe de laïcité dans la République discute al suo interno e, soprattutto, svolge un centinaio di audizioni con persone rappresentative. L’11 dicembre 2003 viene pubblicato il rapporto finale, che si conclude con ventisette proposte riguardanti l’applicazione della laicità in tutte le aree della convivenza pubblica (scuola, sanità, esercito, enti locali, carceri, mezzi di comunicazione). Due sole di queste proposte hanno un’immediata ricaduta legislativa: il divieto dei simboli religiosi o politici nelle scuole pubbliche, e l’istituzione di due feste scolastiche legate alla religione ebraica (Yom Kippur) e islamica (Aïd-El-Kebir). Due giorni prima, i tre presidenti del Consiglio delle chiese cristiane di Francia (cattolica, ortodossa, protestante) si erano rivolti a Chirac con una lettera ricordandogli che «è nostra convinzione che non è legiferando che si risolveranno positivamente le difficoltà attuali». Successivamente il presidente Chirac si dichiara favorevole alla prima norma, mentre rifiuta la seconda. La legge sui simboli religiosi, diventata ormai «legge anti-velo», diventa oggetto di dibattito parlamentare. L’Assemblea Nazionale approva a stragrande maggioranza lo scorso 10 febbraio. Ora si dà per scontata l’approvazione del Senato, con l’entrata in vigore della legge per il prossimo anno scolastico. La Commissione Stasi propone di adottare la disposizione: «Nel rispetto della libertà di coscienza ... sono vietati nelle scuole, collegi e licei gli abbigliamenti e i segni che manifestano un’appartenenza religiosa o politica. Ogni sanzione è proporzionata e presa dopo che l’allievo è stato invitato a conformarsi ai suoi obblighi. Gli abbigliamenti e i segni religiosi vietati sono i segni ostensibles, come grande croce, velo o kippà. Non sono considerati segni manifestanti un’appartenenza religiosa i segni discreti, quali ad esempio medaglie, piccole croci, stelle di David, mani di Fatima, o piccolo Corano». Da espressione di bisogni a rivendicazione di diritti La distinzione fondamentale, su cui tutti hanno sorvolato per rendere il dibattito più ampio e spettacolare, è che la norma riguarda la scuola media, cioè si applica a soggetti minorenni, privi di diritti politici, condizionati e condizionabili, più che da scelte proprie, da imposizioni della famiglia e dell’ambiente comunitario. La distinzione non è da poco, in quanto, per esempio, taglia fuori da ogni discussione il mondo dell’università. Su questo la Commissione è stata esplicita: «La situazione dell’università, pur facendo parte integrante del servizio pubblico dell’istruzione, è del tutto differente da quella della scuola. Vi studiano persone maggiorenni. L’università deve essere aperta verso il mondo. Non è quindi proponibile di impedire che gli studenti possano esprimervi le loro convinzioni religiose, politiche o filosofiche. D’altra parte, queste manifestazioni non devono condurre a trasgredire le regole organizzative dell’istituzione universitaria. Non è ammissibile che degli insegnanti siano rifiutati in ragione del loro sesso o della loro presunta religione, o che degli insegnanti siano ostacolati per principio». Questo passo ci consente di capire quali enormi problemi stiano dietro l’apparente futilità di un innocuo pezzetto di stoffa sui capelli. L’ostentazione del velo rappresenta per l’opinione pubblica francese il punto di partenza di una lunga serie di comportamenti problematici, se non inaccettabili. In nome dell’appartenenza religiosa, nella scuola ci sono ragazze che rifiutano di frequentare la piscina, o anche solo la palestra, con i ragazzi. Vengono avanzate sistematicamente richieste di esonero o di assenza temporanea dalle lezioni per motivi religiosi. Vengono contestati i programmi di storia o di scienze perché non conformi alla tradizione religiosa. Lo svolgimento degli esami è perturbato dal rifiuto di alcuni allievi di essere interrogati da insegnanti di sesso diverso. L’autorità di insegnanti e presidi viene contestata da allievi o dai loro genitori solo perché sono donne. Gli stessi comportamenti si diffondono dalla scuola inferiore all’università, agli ospedali, al mondo del lavoro, ad altre aree sociali. Questi casi sono tutti citati dalla commissione Stasi, così come risultano da indagini sociologiche. La Francia, in conseguenza della sua storia coloniale, ha la comunità islamica numericamente più consistente e di più antico insediamento. Tuttavia è rilevante il fatto che questo genere di problemi non sia sorto che a partire dagli anni ’80, quando già la percentuale di immigrati era superiore a quella attuale degli altri paesi europei. Fino a quella data, le particolarità di origine religiosa venivano presentate come espressione di bisogni, oggi si pongono come rivendicazione di diritti. Ciò indica che esiste un fenomeno nuovo che si è inserito nella vicenda dell’integrazione dei mussulmani in Europa: il fondamentalismo. Laicità passiva e attiva Questo conduce immediatamente al nucleo della questione, di cui il velo è un semplice sintomo: il dilemma tra una laicità neutrale e una laicità attiva, dilemma richiamato anche dalla lettera a Chirac delle chiese cristiane di Francia. Da una parte, i principi dello stato laico, che non riconosce alcun culto, devono garantire la libera manifestazione dei culti. Ma se tra queste manifestazioni religiose alcune vanno contro i principi stessi dello stato (per esempio, la parità tra uomo e donna), deve lo stato laico rinunciare ai suoi principi per rispetto della pluralità, o riaffermarli ponendo limiti alla libera manifestazione? La legge sul velo vuole raggiungere un equilibrio tra le due alternative ponendo sì dei limiti, ma solo a soggetti minorenni, quali sono gli allievi della scuola inferiore. In un dibattito sulla rete televisiva franco-tedesca Arte, un’intellettuale mussulmana (debitamente velata) esponeva il suo argomento: «Se una tradizione religiosa decide che la donna deve portare il velo, e lo stato interviene per dire di no, è la laicità dello stato che viene violata, poiché lo stato laico è per sua stessa definizione incompetente ad esprimersi su questioni religiose». L’argomento appare vincente (in nome della laicità no al divieto del velo), ma aggira il problema di fondo. Uno stato laico non interverrà mai a decidere quale suo figlio Dio chiese ad Abramo di sacrificare. Uno stato laico garantirà che chiunque sia libero di sostenere che si trattava di Isacco, o di Ismaele, o che si tratta di una leggenda o di un apologo morale. Ma nessuna di queste posizioni ha conseguenze dirette sulla convivenza sociale. Se però si deve stabilire se un marito può esigere che sua moglie non venga visitata da un ginecologo uomo, la questione è ben diversa e più critica. Il buon senso non basta Generalizzando al massimo il problema, si tratta di definire come debbano essere gestiti gli innumerevoli casi in cui un comportamento che la legge civile ritiene lecito sia invece considerato illecito da una particolare visione religiosa. Sono situazioni che si pongono non solo in Francia e non solo per le norme islamiche: il lavoro di venerdì, sabato, domenica; la trasfusione di sangue; la preparazione e l’assunzione degli alimenti; l’interruzione della gravidanza; il prestito a interesse. La peculiarità francese sta nella dimensione quantitativa e nella presenza del fondamentalismo, due fattori che impediscono la gestione caso per caso e la ricerca di soluzioni circoscritte in cui il comune accordo possa conciliarsi con il buon senso (accommodements raisonnables), come sappiamo che accade in Italia. Sulla legge francese, oltre agli schieramenti del sì e del no, esiste il parere di chi, senza entrare nel merito, ritiene la legge controproducente, in quanto possibile causa di descolarizzazione e creazione di ghetti scolastici. La commissione Stasi risponde che questo già accade: ci sono situazioni curiose di famiglie mussulmane che mandano i figli in scuole cattoliche perché ritengono che lì i valori religiosi siano comunque più rispettati, o in scuole private laiche perché qui i figli sono sottratti alle pressioni della comunità musulmana. E in questo secondo caso, con l’avvento della legge, queste famiglie ritornerebbero a scegliere la scuola pubblica. L’evoluzione dei fatti reali dirà chi ha ragione. Se ne riparlerà alla fine dell’anno scolastico 2004-2005, quando la legge, come è stato previsto dall’Assemblea che l’ha approvata, sarà sottoposta a verifica. Gianfranco Accattino Il rapporto della Commissione Stasi e la lettera del Cecef (Conseil d’Églises chrétiennes en France) sono accessibili su Internet agli indirizzi http://lesrapports.ladocumentationfrancaise.fr/BRP/034000725/0000.pdf http://www.cef.fr/catho/actus/txtoffic/2003/20031208laicite.rtf |