LETTERA
Se la vita è un’altra cosa


La vicenda della signora milanese che non ha voluto curarsi e ha lasciato l’ospedale con un piede in cancrena, che andava amputato per evitarle il rischio di gravi infezioni e della morte, ha riproposto il problema: fino a che punto uno ha diritto di disporre del proprio corpo?

Il problema è secondo me culturale: in questo nostro mondo, nel quale la cultura di massa va nella direzione della conservazione a tutti i costi della vita o di una sua parvenza, il paziente che si sottrae a cure volte ad una sua conservazione è nella maggioranza dei casi ritenuto – proprio perché il suo pensare si discosta da quello della maggioranza della gente – incapace di intendere e volere. Si ipotizza quindi il ricorso al Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, quello, per intenderci, utilizzato per curare contro la loro volontà i “pazzi” proprio nel momento della crisi acuta (e non dopo, solo per i primissimi giorni).

Non si riesce a concepire che la vita abbia un valore diverso da persona a persona, e nel caso che lo si capisca, non lo si accetta: fa paura una tale indipendenza di giudizio. Tiziana Maiolo racconta – a sostegno della sua tesi dell’intervento obbligatorio – di aver costretto al Tso una anziana ottantaquattrenne che rifiutava di alimentarsi (vi lascio immaginare con quali mezzi: sonde, flebo somministrate contro la volontà del paziente, sedativi per fiaccarne la ribellione): ma la vita è dunque una condanna? o non deve essere una libera, e quindi più preziosa, scelta?

Prima di una qualsiasi operazione chirurgica o esame medico invasivo viene sottoposto al paziente un modulo da firmare in cui sottoscrive di conoscere i rischi e le conseguenze dell’intervento: senza tale firma i medici non possono procedere. Per legge quindi il consenso informato è (o meglio dovrebbe essere) la condizione di base dei rapporti con i pazienti.

La stessa Maiolo afferma che se vedesse una persona in procinto di buttarsi dalla finestra la tratterrebbe per la giacca: credo che lo farei anch’io, istintivamente, pensando che sta facendo una follia... ma poi mi domanderei per tutta la vita quale diritto avevo io per mettermi tra questa persona e le sue scelte. È vero che va attentamente valutata la reale libertà della persona che fa una scelta di non-vita, che devono essere eliminati per quanto possibile gli ostacoli che le impediscono di scegliere di vivere (la disperazione di un suicida spesso è profondissima ma qualche volta transitoria o comunque in parte alleviabile con un autentico sostegno umano); ma poi in umiltà si deve rispettare quello che non si riesce a capire.

O io sono una assassina? Mia madre 94enne ha fatto la scelta di rifiutare di alimentarsi, reputando di aver vissuto abbastanza e che «la vita era un’altra cosa». Io personalmente credo che ancora avesse qualcosa da vivere, ma, avesse lei ragione o no, con estrema difficoltà e sofferenza noi figli, concordi, siamo stati spettatori della sua scelta e di una lunghissima morte durata più di sei mesi, lungo i quali la sua volontà non ha praticamente mai vacillato. E ancora adesso penso che avesse diritto a questa sua scelta, anche se incomprensibile per me, e amarissima.

Smettiamo di sperare di diventare dio intervenendo nella vita degli altri.

lettera firmata



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