Davanti al ciclone di violenza terroristica, che sceglie di colpire persino bambini e pacifisti, violenza accresciuta dalla guerra in Iraq, i politici vogliono apparire sicuri sul da farsi. Noi siamo più incerti nell’immediato, anche se ben orientati. Abbiamo certezze e incertezze. Incertezze sull’interpretazione delle componenti reali e delle volontà politiche di questa esplosione criminale e banditesca, che sorpassa qualunque diritto di difesa da un’occupazione bellica del tutto ingiustificabile. Certezze sul fatto che la guerra non solo non combatte il terrorismo, ma lo alimenta, perché la sua natura sostanziale non è diversa dal terrorismo.
Dire questo ci conduce all’arduo problema del confronto tra la violenza istituzionale, legalizzata, monopolio dello stato di diritto, e la violenza illegale. Fin quando gli stati, anche i più corretti e democratici, non cercheranno di ridurre fortemente la relativa violenza che hanno incorporata (già nel sistema penale, e soprattutto nel sistema militare), essi non saranno veramente capaci di essere alternativi alla violenza privata e di bande: semplicemente, si arrogheranno il diritto di uccidere che negano ad altri. D’altra parte, il fatto che la violenza si moltiplica dove manca un qualunque stato, come oggi in Iraq, dimostra che lo stato, bene o male, pone un limite alla violenza. Quando è uno stato tirannico, violento, bellicoso, contro il senso primo della politica (Hannah Arendt: dove c’è potere politico non c’è violenza, e viceversa), almeno è violenza individuabile, che fa meno paura di quella incombente da ogni lato.
Ma se guardiamo la violenza in chi la patisce, non in chi la compie, essa è uguale nelle vittime del bombardamento statale o della bomba terroristica.
Nella dolorosa confusione attuale, vediamo che ogni stato appena decente è almeno amministrazione della vita comune, perciò riduzione di caos e violenza. Se è uno stato democratico, pur imperfetto, segue regole che escludono la violenza dalle procedure decisionali. D’altra parte, lo stato oggi preso largamente a modello, gli Usa, stanno usando la guerra come se fosse uno strumento lecito della politica di influenza e dominio, e il loro presidente Bush cerca nuovo consenso proprio sulla guerra. Ciò è grave crimine internazionale, rottura della legalità, che spinge altri all’imitazione.
Le istituzioni statali hanno il dovere e il diritto di difendere i cittadini e anche sé stesse dalla violenza senza volto. Ma la cultura politica ancora corrente conosce e pratica quasi soltanto la guerra come strumento per questa difesa. E la guerra è impotente contro il terrorismo, costa ai cittadini perdite di vite, di libertà, di beni, giova soltanto all’uomo forte che campa sul terrore del nemico, e finisce col dare motivi e assurda legittimazione al terrorismo.
Il terrorismo che invade quotidianamente e devasta gli animi, ora è visto come il male assoluto, e ciò elude l’analisi delle sue cause oggettive e soggettive e della sua distorta logica; ora sembra rispondere a calcoli cinici, in vista di nuovi poteri fondati sul terrore, oppure in vista della sua classica utilità a favore di chi si presenta come salvatore forte da quell’ombra terrificante.
Il livello di capacità distruttiva, che tutti tacitamente sentiamo addosso, è altissimo e intimamente pauroso: da un lato, il rischio atomico sempre incombente oggi, specie in presenza della *guerra; dall’altro lato, il corpo umano fatto nuova arma assoluta dall’attentatore sui-omicida, che la morte minacciata non arresta, perché è accolta e usata nella sua azione, rappresenta una figura nuova della violenza, che è un proclama terribile di morte generale, di contesa che ha la morte come unica vincitrice.
L’orrore perenne della violenza crea sempre nuovi orrori. Entrambe le parti colpiscono persone non militari. I civili sono l’obiettivo. La tortura di inermi è nella logica di guerra. Per impedire gesti di relativa distensione, come la liberazione di ostaggi politicamente scomoda, si bombarda la città di Falluja. Terroristi che dicono di difendere un paese – ammesso che siano tali – sequestrano amici del loro paese, oppositori attivi e nonviolenti della guerra.
Vediamo colpire e uccidere, sentiamo il dolore, siamo impediti di sapere e capire. La nebbia nera della guerra oscura copre e confonde azioni, mire, responsabilità. Molto ci è ignoto, occultato, o ci appare capovolto. Ma sappiamo perfettamente ciò che conta: che guerra e contro-guerra, terrorismo e terrore-anti-terrore, si causano e si motivano a vicenda, in una orrenda specularità, in una criminale stoltezza. Sappiamo che non possiamo credere per nulla alle retoriche che consacrano, per l’una o l’altra causa, il dare la morte a persone umane.
Si dirà che le democrazie, gli stati di diritto, dove si può discutere liberamente, come qui stiamo facendo, hanno il dovere di usare i mezzi necessari per ripararsi e comprimere i fanatismi violenti, forieri di assolutismi. Sappiamo che la costruzione di strategie nonviolente, cioè la lotta giusta con mezzi giusti, con la forza umana e non la violenza omicida, è cominciata in non poche esperienze storiche, anche in condizioni durissime, ed è pensata nella cultura di pace nonviolenta, è praticata da piccoli gruppi di volontari nonviolenti in zone di conflitto, che pagano la loro dedizione, ma è ancora assolutamente incompresa dalle classi politiche, non finanziata e addestrata dalle politiche statali. Sappiamo e vediamo, sempre di nuovo, che il semplicismo brutale delle armi e della guerra, che taglia il nodo senza cercare di scioglierlo, perde nodo e fune, taglia relazioni nella carne viva dell’umanità, aggiunge male a male.
Perciò, nella nebbia e nelle amare difficoltà di questo momento tragico, una cosa ci è chiara: occorre rinnegare la fede nella guerra, che invece personaggi con alte responsabilità e opinionisti influenti rafforzano incoscientemente; intensificare dialogo e collaborazione tra energie culturali, spirituali, religiose di tutti i popoli; praticare l’amicizia e accoglienza tra le basi delle popolazioni, perché non cadano negli opposti miti violenti e conoscano amici e non nemici negli altri popoli, e possano rinnegare le false sirene delle due violenze; dare segnali e fare passi di giustizia economica internazionale, perché l’iniquità e il dominio sono guerra e sono terrore che fa disperare le vittime. Opporre ai metodi violenti metodi opposti, liberi dalla violenza propria.
Essenziale è sfuggire al ricatto da guerra fredda, per cui se condanni la guerra sei amico dei terroristi, se condanni il terrorismo devi accettare la guerra, se parli di pace sei amico del nemico. Uscire dalla trappola «tutto o niente», è imboccare la ricerca giusta, la via politica alla pace, radicata nel bisogno umano di mitezza e ragionevolezza, più profondo delle ire violente. Non ci sono altre vie, veramente.
[ ]
|