CINEMA
Fahrenheit 9/11


Michel Moore non ha l’arte di Chaplin, ma, nel genere della satira senza risparmio e del riso amaro, mosso da indignazione morale, ha fatto il nuovo Grande dittatore. Vedere è sapere. Sono tutte cose già scritte in centinaia di articoli e libri, ma qui sono mostrate. Non so quali effetti il film potrà avere sulla società Usa, dove il 50% non va mai al cinema. Sentirne parlare non è come vederlo.

La forza del film di Moore è la quantità di documentazione visiva, dei volti smascherati e dei discorsi, ma anche di documenti scritti (la versione originale compromettente, confrontata con quella censurata), buon antiveleno alle fonti ufficiali.

La satira sono le immagini dietro le quinte: gli uomini del potere come omuncoli preoccupati solo di apparire, recitare, farsi consacrare potenti da un popolo imbambolato. Come l’uomo di governo che conosciamo, impegnato contro rughe e calvizie. Un potere da gestire per conto di mandanti più potenti, alle loro spalle.

La sana dissacrazione è mostrare che gli uomini di potere sono anime vuote, che si nutrono di soldi e di potenza, a qualunque prezzo, anche la morte altrui.

La serietà è documentare il broglio elettorale, i legami finanziari stretti del giustiziere con gli ambienti di provenienza della grande violenza del 9/11 (che possiedono il 7% della ricchezza Usa), poi protetti dirottando la vendetta sull’obiettivo designato in anticipo, non tanto l’Afghanistan ma l’Iraq. È mostrare come neppure un senatore bianco (neri non ce n’è) mette la firma necessaria all’accusa di deputati neri contro Bush.

La denuncia è mostrare tanto l’animo criminale dei potenti e l’animo feroce dei soldati mandati a «bruciare tetti» (canzone-droga che ascoltano dentro il carro armato), dopo aver bruciato la coscienza, quanto la ferocia speculare della resistenza violenta.

La verità e la speranza è mostrare poi alcuni soldati – solo alcuni – che prendono coscienza di ciò che fanno, e si rifiutano.

Il giudizio e la pietà sono nel far vedere i reclutatori di ragazzi poveri e sprovveduti. Come dice Brecht in Madre Courage: «Dice il pescatore al verme: vieni, andiamo a pescare»!

La tristezza è sentire i cittadini che non pensano, ma si fidano acriticamente di qualunque cosa decida il presidente.

Il fastidio salutare, se non lo rifiuti, è la visione insistita del dolore nelle famiglie irachene come in quelle americane per gli uccisi dalla guerra.

Massimo Cacciari critica il silenzio sull’ideologia imperial-religiosa dello staff al comando. Ma il film ha voluto essere solo il grido del bambino della favola: «Il re è nudo». In questo film dapprima ridi, poi ti accorgi che è spaventoso.

E.P.



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