ADOLESCENTI E SCRITTURA

Farsi una storia


Si dice che se oggi i giovani non sanno esprimersi è colpa degli sms. In realtà gli sms hanno amplificato l’uso della scrittura. «Saranno messaggi brevi e spesso cadono in formule stereotipate, però hanno moltiplicato le occasioni e gli spazi della scrittura. 160 caratteri moltiplicati per tutti i contatti... Gli sms che mandano i ragazzi non sono così banali: c’è un’immediatezza del messaggino, che essi non sono altrimenti capaci di trovare nel contatto diretto con l’altro. Quando c’è un coinvolgimento emotivo, spesso c’è un blocco, gli adolescenti non sanno cosa dire. Attraverso la mediazione elettronica riescono invece a trovare il coraggio di dire. E poi, chi scrive ancora lettere oggi?», mi dice Renato Tomba. Insegna italiano, e ha provato a far scrivere di sé i ragazzi. Ne è venuto fuori un libro “firmato” con i suoi allievi, «le ragazze e i ragazzi della Ia A» dell’Ipcs «Albe Steiner» di Torino, dal curioso titolo Ci facciamo una storia?, che allude ironicamente a un modo di dire frequente nel linguaggio giovanile. Ma il sottotitolo spiega: Adolescenti si raccontano: un percorso didattico sull’espressione di sé (Bollati Boringhieri 2004). Il libro infatti è il frutto di un’esperienza didattica singolare: un anno di lavoro sulla scrittura come espressione di sé che è diventato l’occasione per riflettere sul valore della scrittura e più in generale su che cosa significa insegnare (e imparare!) oggi.

Non si può più, ormai, fare scuola semplicemente riempiendo la testa degli allievi di dati, idee, procedure, abilità... Anche perché, intanto, loro la testa non se la lasciano riempire. Almeno a scuola. La vita è altrove. Educare significa allora saper «tirar fuori» da loro (e-ducere, in latino), partire cioè dalle loro soggettività. Spesso, nella scuola, l’espressione della soggettività è lasciata alle sue manifestazioni più caotiche («È indisciplinato!»). Non entra a far parte di un progetto educativo, e men che meno alla messa a punto dei processi cognitivi. La scuola in questo ha invece una grande risorsa, vecchia ma sempre a portata di mano: la scrittura. Tutti, in un modo o nell’altro, affrontano nelle superiori il tema della narrazione. Tomba ne ha fatto un cavallo di Troia per portare i ragazzi a entrare in contatto, in modo nuovo, con il loro mondo interiore.

Dopo aver lavorato sulla narrazione, all’inizio Tomba ha chiesto ai ragazzi di «tirare fuori il personaggio» che c’era in loro. Non si trattava necessariamente di raccontare i fatti propri, anche per preservare una sorta di riservatezza. Il problema era che fosse autentico, cioè che anche attraverso la finzione esprimesse un loro sguardo su se stessi e sulla vita. Poi gli allievi gli chiesero se leggeva solo lui... e lì capì che c’era la voglia di scrivere qualcosa di aderente al vissuto. Quindi all’inizio le storie non dovevano essere pubbliche, non dovevano circolare... Hanno cominciato i ragazzi a scambiarsele, a due a due, per verificarne l’effetto e la comprensibilità. Comunque doveva essere salvaguardato l’anonimato, che nel libro è stato conciliato con il desiderio di «lasciare un segno» (come se l’in-segnare fosse un compito passato dall’insegnante agli allievi) della loro unicità attraverso l’uso di un logo calligrafico che precede ogni racconto. Così, tutti hanno accettato di pubblicare la loro storia. Solo un ragazzo non voleva renderla pubblica. Per lui non era facile venire a scuola negli ultimi mesi, stava proprio male: molte assenze e ritardi... spesso era di un pallore spettrale... Il giorno prima di impaginare il libro, propose di essere il primo a leggerla ai compagni. Andò alla cattedra, dichiarò il suo imbarazzo, poi lesse con voce decisa. Il primo passo per uscire da una brutta storia, una presa di coscienza. A scuola la capacità di apprendere dovrebbe essere sostenuta da questa narrazione in comune, dentro la quale l’adolescente, disperatamente in crisi, può trasformarsi in un personaggio positivo. Altrimenti, perché mai un ragazzo così dovrebbe pensare di potercela fare?

In genere alla richiesta di provare a raccontare gli allievi rispondevano: «Non c’è niente di interessante! ». Tutto nella loro vita appariva ordinario, banale. «Cosa hai fatto oggi?» «Così, niente... mi è solo capitato...». Tomba doveva cercare di vincere questa reticenza, questo pudore. Così Tomba ha fatto leggere Esercizi di stile di Queneau (Einaudi), in cui un fatto del tutto insignificante viene raccontato in decine di modi diversi. E i ragazzi hanno capito una cosa fondamentale: che al di là di ciò che si dice, la componente più importante è l’espressione del parlante, dell’autore della narrazione. Allora raccontare una storia non significa più solo mettere in fila una serie di eventi, ma richiede un modo di osservare quegli eventi da una prospettiva particolare: quella dell’autore. In altre parole oltre agli eventi, bisogna “inventare” colui che li racconta.

I ragazzi parlano dei loro sogni, dell’amore e dell’amicizia, dei tradimenti, della famiglia. Del mondo visto da loro. Molte storie parlano del dolore e della morte. È il tema della separazione e dell’assenza, anche quella assoluta che è la morte. Ascoltare questo tipo di storie tra compagni significava accostarsi con un coinvolgimento più intenso che verso un semplice vicino di banco. Un giorno entrando in aula, Tomba trova un’allieva in lacrime. «Cosa ti succede?». Non rispondeva. Poi si calmò, le compagne le si strinsero attorno. «A me va tutto bene. Ho ancora i miei genitori, e stanno insieme, ho ancora i nonni. A me non è successo nulla. Io non conosco quello che invece è successo ai miei compagni. Mi sento in colpa di essere felice». Aveva letto le “disgrazie” raccontate da alcuni compagni... Una improvvisa confidenza di disarmante tenerezza.

Antonello Ronca

• Renato Tomba – Le ragazze e i ragazzi della Ia A, Ci facciamo una storia?, Bollati Boringhieri, Torino 2004, € 15.


 
 
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