RACCONTO |
Il «pettine» di monsignore |
Facevano bene a chiamarlo monsignore, anzitutto perché lui ne era ben contento, poi perché lo era davvero: quando si metteva elegante, si vedeva la fodera rossa delle maniche e rossi erano tutti i bottoni – ma quanti erano? – dell’abito talare. Era parroco in una importante e bella cittadina ligure. Un prete tutto d’un pezzo, di quelli di una volta, ma dotato di savoir vivre e di buono spirito. Era il tempo, allora, di Peppone e don Camillo. Lui però non si chiamava Camillo; il suo nome era quello di un antico imperatore, che fece molto bene o molto male, secondo opposti punti di vista, alla chiesa dei seguaci di Gesù. Una volta, nel filobus che portava in città, alcune donne comuniste (ce n’erano molte, in zona) dissero qualcosa di non lusinghiero né rispettoso a proposito del nero dei preti. Lui, pronto, nel sonoro dialetto locale: «Sapevo che il rosso fa infuriare i tori, non sapevo che il nero facesse infuriare le vacche». Ormai, tanto tempo dopo, pochissime persone al mondo possono ricordare i fatti che raccolgo qui. Ho avuto occasione, negli anni, di conoscerli dai protagonisti e metterli insieme, e mi piace raccontarli, forse non inutilmente. Monsignore era volentieri invitato a pranzo, con onore reciproco, in casa del dottore, volentieri accettava e volentieri mangiava. E beveva con altrettanto apprezzamento e competenza. Era di buona compagnia, specialmente in quei momenti conviviali. La signora del dottore, in alcune di queste occasioni, dopo il pranzo, lo pregò di dare una «pettinata» ai nipoti presenti per le vacanze marine. Cos’era la «pettinata»? Erano alcune istruzioni morali, soprattutto preventive, da impartire ai bambini maschi che stavano diventando ragazzi. Femmine ce n’erano, ma troppo piccole; comunque per loro sarebbe stato un affare diverso, un affare di madri. Uno per uno, i maschietti venivano a colloquio con monsignore in una stanza. Il suo argomento fondamentale era ammannito con garbo e con tono adeguato all’importanza, ma in realtà non appariva molto convincente, ora vedremo perché. Di cosa si trattasse, in queste «pettinate», i ragazzi lo capivano subito, anche se la presenza del problema era in loro appena appena iniziale. L’argomento era questo: «Vedi, è come quando hai tanto appetito, c’è una tavola apparecchiata piena di cose buone e golose, ma tu devi aspettare. Capito?». Era ben chiaro che non poteva venirgli in mente, così spontanea, un’altra immagine. E accompagnava le parole con un gesto eloquente, quello di chi inghiotte l’acquolina che la visione del cibo bramato gli ha formato in bocca. Bisogna dire che quell’azione riusciva particolarmente efficace sul suo ampio viso, dotato di due organi perfettamente funzionali allo scopo: una bocca labbrosa che davvero sembrava modellata per assaggiare, palpare tra lingua e palato, assumere, gustare con tutte le papille e inghiottire con grande piacere i cibi più succulenti; e un perfetto doppio mento che, immemore della serie intera dei sette vizi capitali, era, specialmente nel movimento su e giù di quel finto inghiottire niente altro che acquolina, una plastica e carnale celebrazione dei più ghiotti e desiderabili piaceri della gola. Ecco perché il suo argomento così ben recitato non era poi convincente come lui avrebbe voluto. Si capisce – veniva in mente facilmente ai ragazzi – che deve trattarsi di cose molto buone. Dopo quella argomentazione cibaria, presentata in parole e immagini, venivano altri passaggi della «pettinata». Centrale era la messa in guardia da una certa azione solitaria, deprecabile, anche se poteva, in certi momenti, prospettarsi desiderabile e liberante come – esemplificava monsignore – riuscire a fare pipì dopo lungo tempo che ne senti il bisogno e non ne hai la possibilità. «Ecco, deve essere nulla di più di una cosa simile », diceva monsignore, precisando con cura: «anche se non conosco quella sensazione». I ragazzi, allora, non ci pensavano su molto, ma se lo avessero fatto, non so se quel paragone li avrebbe dissuasi da quella certa azione o invece persuasi di una sua innocente naturalezza. Un altro punto importante era l’avvertimento riguardo a certe «case» dove potevano condurre i cattivi compagni. Una volta, uno di quei ragazzi sentì di dover fare una piccola confessione: «Qualche volta sono andato a vedere...». «Cosa? – lo interruppe monsignore – Anche solo guardare quelle donne, che si mostrano in anticamera, è male. Non andarci più!». «No, io volevo dire un’altra cosa: sono andato a vedere sui giornali qualche notizia piccante, come, per esempio, un articolo che parlava di un campo nudista». «Ah, beh. Comunque stai attento». «Quelle donne», senza accanimento spregiativo, ma pure senza ombra di misericordia (meglio parlarne il meno possibile), erano il cartello indicatore del terreno minato, nel panorama della vita abbozzato da monsignore ai ragazzi. Un altro di quella masnada, orientato in termini generalissimi da papà e mamma (di più da mamma), ma alla fine da solo, era arrivato un po’ alla volta a immaginare che cosa può avvenire tra un uomo e una donna, da cui può nascere un bimbo. Poi però aveva sentito parlare di rapporti sessuali sia tra soli uomini, sia tra sole donne. In uno di quei colloqui si sentì incoraggiato – e questo era senz’altro un bene – a chiedere qualche chiarimento. «Come possano fare gli uomini, posso immaginarlo – disse coraggiosamente al monsignore – ma le donne, come fanno? Non riesco proprio a immaginarlo». La spiegazione non fu del tutto avara di dettagli, così il ragazzo venne a sapere di una cosa chiamata clitoride, anche se i relativi gesti di quel tipo di rapporto rimanevano piuttosto misteriosi nella sua fantasia. C’è un altro momento di quei due o tre colloqui che uno di quei bambini-ragazzi, a quanto dice, ricorda bene. Il monsignore gli disse: «Vediamo se si è già scappellato». Docilmente e fiduciosamente il bimbo, o ragazzo in erba, tirò fuori dai calzoni il suo cosino. «No, non ancora», osservò con rapido esame un tranquillizzato monsignore, il quale – ricorda il ragazzino – fece questa ispezione corporale con realistica concretezza, ma con discrezione e rispetto, tanto che non turbò per nulla la sensibilità del soggetto esaminato ed anzi lo lasciò meglio informato e orientato sui fenomeni che stavano per compiersi nel suo corpo. Un monsignore all’antica, il nostro, ma non a occhi chiusi sui problemi e sulle novità. Un don Camillo «prelato domestico di Sua Santità» (questo è il titolo intero dei monsignori), esperto oltre che di cucina e di pranzi, e naturalmente di liturgie e di feste patronali, anche di faccende domestiche e familiari come quelle qui narrate, che una zia premurosa di una piccola frotta di nipoti maschietti gli delegava con fiducia. Era, la sua, un’istruzione sessuale ovviamente puntata sulla «più bella delle virtù» che era allora la «purezza» (oggi qual è la virtù più bella?), ma – bisogna riconoscerlo – un’educazione non negativa, non terrificante né sessuofobica. Insomma, non inutile. Un’istruzione sessuale, più che un’educazione morale cristiana: nella «pettinata» di monsignore né Gesù, né la sua parola e il suo vangelo comparvero mai, a quanto ne so; ma neppure, bisogna dirlo, il diavolo e l’inferno. Era un’istruzione razionale, sanitaria, prudenziale, elevata a valore religioso dal rosso dei bottoni di monsignore. Del resto, uno dei segni della provvidenza di Dio nella vita umana è normalmente questo: i ragazzi che crescono, anche i più fortunati perché meglio educati, devono e sanno arrangiarsi nell’imparare molti aspetti della vita, in tutti i suoi campi, con qualche sbaglio e confusione, ma, per lo più, con una discreta capacità di orientarsi in definitiva da soli. C’è chi attribuisce questa capacità a quella piccola grande parte invisibile della persona che è la coscienza. Ha certamente ragione. La vita è scuola, insomma, e la persona umana sa imparare, con o senza monsignori. Luca Sassetti |