LE CIVILTÀ NON SI FANNO GUERRA |
Il racconto, spazio del dialogo |
«L’uomo è lupo per l’uomo»: ha detto Hobbes, un pensatore che conosceva gli uomini e la loro storia di reciproca violenza e vedeva nel patto sociale di tipo autoritario e assolutista l’unico rimedio a tale stato di cose. Ma al tempo stesso trattava lo sviluppo delle arti della lingua e della mano (dalla filosofia alla tecnica) come un territorio alieno alla naturale violenza, come uno spazio aperto alla creatività della ragione. Ecco perché può esserci guerra tra uomini, tra governi e popoli, ma non tra civiltà e culture: perché all’origine delle civiltà e delle culture sta la parola e lo scambio, o meglio sta la scambiabilità delle parole, che sempre hanno in sé come principio il bisogno di comunicazione e di espressione e come fine la creazione di tessuti di relazione e di griglie di comprensione. Certo può accadere che la parola sia utilizzata in contesti di conflitto, come strumento di offesa o come pretesto di scontro, ma questa è una degenerazione temporanea che, per di più, porta in se stessa la potenzialità del riequilibrio e del risanamento, in quanto nessuno parla senza che il suo parlare apra spazi inattesi di scambio, provochi risposta e obblighi all’ascolto del dire altrui. Di per sé la parola, infatti, non è fatta per il dogma ma per il dialogo. Risuona per essere accolta e per ricevere risposta. Da sempre porge l’altra guancia. Da sempre fa due miglia con chi gli chiede di farne uno. Teme, anche se non rifugge, la solitudine, e cerca la compagnia e, con la compagnia, il cammino e il dibattito, la strada e la piazza. Ciò che vale per la parola vale per la civiltà e per la cultura. Come la parola si articola in lingue mai riducibili, ma sempre traducibili l’una nell’altra, mai originarie e depositarie della verità, ma sempre interpretabili e confrontabili tra loro, così civiltà e culture non sono chiuse in sé e autosufficienti. Sono soggette a continue modificazioni, ad un processo di scambio e di meticciato che dilaga nel tempo e nello spazio, nella quantità e nella qualità degli uomini. Troppo spesso noi dimentichiamo che la nostra identità è ben più linguistica e culturale che fisica, ben più costituita da legami con l’esterno che da vincoli interni e che, infine, tale identità non ha titolo alcuno per definirsi la migliore, quella a cui le altre debbono conformarsi al fine di costituire una lingua, una cultura e una civiltà unica e perfetta. Il dono delle lingue C’è un mito, un racconto originario e fondatore, che la Bibbia rielabora e rilancia, riprendendolo da più antichi strati culturali. È il mito della torre di Babele, che in tempi di trionfante dogmatismo è stato letto come mito di caduta e non come mito di creazione. Vi si narra che all’origine, e l’origine non sempre è l’ideale, può essere anche uno stato di confusione caotica o di infantile bisogno d’onnipotenza; gli uomini parlavano tutti una sola lingua. Il che li fece ambiziosi di salire dalla terra al cielo, costruendo per questo, in perfetta sincronia d’intenti e di movimenti, proprio come le formiche, un formicaio, una torre alta sopra le nuvole. Così che Dio, preoccupato di vederseli sbucare tra gli astri invece di popolare la terra, decise di distrarli dall’intento blasfemo e autodistruttivo, semplicemente confondendo le loro lingue. Essi, allora si dispersero, dando vita ai vari popoli e alle varie culture, frutto delle nuove lingue. È una punizione, come pensavano gli antichi interpreti, o un dono, come propendono oggi a pensare gli esegeti e i teologi, ma soprattutto i letterati e i filosofi? Come pensare a una punizione, se Dio volle poi servirsi della lingua ebraica, che certo non può essere l’originaria perduta e fonte di peccato, di quella aramaica e greca, del latino ecclesiastico e dell’arabo per trasmettere agli uomini la sua rivelazione? Come immaginare frutto di caduta e di condanna ciò che ci ha donato il Cantico dei cantici, l’Odissea, il Codice giustinianeo, la Divina Commedia, le liriche dei sufi, le storie di Shahrazad, il teatro di Shakespeare, l’Infinito di Leopardi, I fratelli Karamazov, il romanzo nord e sudamericano, La metamorfosi di Kafka, per non parlare della Bhagavadgita, degli haiku giapponesi, dei canti africani, delle leggende amerinde perdute? Eppure, ancora oggi gli uomini coltivano con ostinazione residua il sogno di un’unica lingua e di un’unica grande macchina che attinga all’origine dell’infinita varietà del creato per disciplinarla e omologarla. Dio demolì a Babele la pretesa di agguantare per virtù di tecnica, di ingegneria, mono e auto-latriche, l’universo. «Non ne siamo rimasti persuasi. La dispersione lì avvenuta delle lingue e delle fedi da parte di Dio costituisce prova di una provvidenza che non è stata ancora apprezzata» (Erri De Luca, Una nuvola per tappeto, Feltrinelli, Milano 1992, p. 19). Lo scambio narrativo Come possiamo convincerci che questa frattura non è un impoverimento, ma una ricchezza, non è un’occasione perduta, ma una chance ineguagliabile? Una strada è quella di seguire il crescere della parola in racconto, per scoprire che esso non sta fermo e immobile là dove è nato, ma trascorre da cultura a cultura, da lingua a lingua. Tanto che spesso non lo si può più cogliere nella sua forma originaria, ma solo in quelle successive, via via più complesse e profonde, più persuasive e capaci di guidarci a una comprensione nuova dell’inter-relazione e dell’inter-dipendenza tra gli uomini. Molti di noi conoscono la «novella dei tre anelli» nella versione del Boccaccio, che nella prima giornata del Decamerone mette in bocca all’ebreo Melchisedech questa risposta alla domanda del Saladino su quale sia la vera religione tra ebraismo, cristianesimo e islamismo: «Un re, aveva tre figli, che amava allo stesso modo, ma aveva un solo anello, bellissimo, ereditato dal padre come segno di primato e di responsabilità da capofamiglia. All’approssimarsi della morte, non volendo privilegiare nessuno dei tre figli, ma tutti onorarli allo stesso modo, fece segretamente fare altre due copie dell’anello, perfettamente uguali alla prima per forma e valore. Lasciò, dunque, a ciascuno d’essi un anello. “E così vi dico, signor mio – conclude Melchisedech – delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali question poneste: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge di suoi comandamenti a buon diritto si crede avere e fare, ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione”». È una bella storia, già di per sé dialogica, ma ancor più lo diventa quando ci si interroga sulla sua origine e sulle sue successive riprese e interpretazioni. Piero Stefani, che a questo tema ha dedicato uno studio attento, così sintetizza la ricerca sui precedenti del Decamerone: «Il nucleo centrale della novella, cioè la parabola dell’ebreo saggio, ebbe grande diffusione nel Medioevo. Prima del Boccaccio era già stata narrata nel Novellino, mentre secondo alcuni studi la sua forma più antica sarebbe riflessa in un libro quattrocentesco ebraico che mette in scena Pietro d’Aragona. È stata anche richiamata l’antica leggenda ellenistica di Iside, che fece fare svariati simulacri del dio Osiride perché le varie categorie di sacerdoti egizi credessero di avere il cadavere autentico del Dio. Resta poi molto probabile che nella storia dei tre anelli sia presente un più o meno remoto influsso islamico « (Ebrei, Cristiani, Musulmani da Boccaccio a Lessing, in «Biblia», 2001, n. 2, pp. 9-12). D’altra parte il nome di Melchisedech non è ebraico, ma appartiene a un misterioso re di Salem (Gerusalemme), sacerdote di El ‘Eljon (Dio Altissimo), contemporaneo di Abramo (Genesi 14,17-20). Il che fa pensare a una nascosta e dotta allusione a una dimensione religiosa originaria che precede e accomuna ebrei, cristiani e musulmani; dimensione ripresa, in ottica laica ed illuministica, in forma di religione naturale e razionale, da Lessing che, nel poema drammatico Nathan il saggio (1779), riprende l’antica novella e la trasforma in una garbata, ma fermissima, critica della pretesa di verità delle religioni storiche. Sentieri verso la convivenza Lo spunto narrativo è la stesso, ma la stringata novella del Boccaccio si dilata, qui, in dramma, che vede l’infinita e irrisolta contesa dei fratelli, per affermare la superiorità del proprio anello (fede), portata davanti a un giudice (la ragione) che sostanzialmente li invita a lasciar perdere le dispute teoriche per gareggiare in virtù e tolleranza. «Gareggiate tra voi nel mettere in evidenza le virtù dell’anello! Assecondate questa virtù colla mitezza, colla sopportazione cordiale, colla carità del prossimo, colla rassegnazione al volere di Dio. E quando le virtù dell’anello si saranno manifestate nei figli e nei figli dei figli, fra mille e mille anni, vi invito ad rivolgervi ancora a questo tribunale, dove qualcuno più saggio di me emetterà la sentenza» (G. E. Lessing, Teatro, Utet, Torino 1981, p. 252). Come è possibile vedere il trascorrere del racconto da cultura a cultura ci ha portato, prima, a fondare la tolleranza e la convivenza tra le fedi sull’impossibilità di decidere quale sia quella vera, ma anche sulla loro comune origine dal Padre, quindi ci ha condotto a sentire come irrilevante la loro differenza storica e confessionale per privilegiare la via della virtù e della collaborazione reciproca. Ma questo non è tutto. Il percorso narrativo, meditativo e rivelativo del racconto non finisce mai e non ha una direzione soltanto. Nuovi e altri stimoli possono condurlo altrove, nuove e altre interpretazioni possono farci giungere a sensi più profondi. Nel nostro caso Stefani ci suggerisce una nuova pista di ricerca, invitandoci a tenere presente un testo che affronta il tema della convivenza tra le tre religioni a partire da un punto di vista islamico: «A te abbiamo rivelato – scrive il Corano 5, 46-48 – il libro secondo verità, a conferma delle Scritture rivelate prima (Antico e Nuovo Testamento) e a loro protezione. Giudica dunque tra loro secondo quel che Dio ha rivelato e non seguire i loro desideri a preferenza di quella verità che t’è giunta. A ciascuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre se Iddio avesse voluto avrebbe fatto di voi una Comunità unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali siete in discordia». Per giustificare la convivenza pacifica con l’altro non è dunque necessario annullarne o relativizzarne la diversità, come accade allorché si dice che tutte le religioni storiche in fondo dicono le stesse cose e sono solo caduche e fastidiose varianti di un’unica verità. Il “mistero” da svelare per le fedi e il problema da risolvere per le filosofie sta nello spiegare i modi in cui possono coabitare le diverse comunità di credenti, proprio a partire dalla convinzione di ciascuna di esse di affondare saldamente le radici nella verità. Aldo Bodrato |