ISLAM A SCUOLA

Stop alle classi islamiche


A metà luglio in Italia il ministro dell’Istruzione ha detto stop alla sperimentazione di classi islamiche nelle scuole di Milano, programmata per l’inizio di questo anno scolastico. Alcuni adolescenti che finora avevano frequentato una scuola autogestita dalla comunità islamica milanese in via Quaranta – scuola che per lo Stato italiano non esiste – sarebbero stati riuniti in un’unica classe al liceo statale Agnesi.

«Una comunità che si era per anni autoemarginata, evitando ogni contatto con le istituzioni, ha raggiunto un grado di fiducia tale da acconsentire a numerose famiglie di affidare l’educazione dei propri figli a insegnanti italiani, secondo i programmi ministeriali e all’interno delle nostre scuole», commenta Paolo Branca, docente di arabo alla Cattolica di Milano. «Specie per le adolescenti, il linguaggio, l’abbigliamento e certi comportamenti dei potenziali compagni di scuola avrebbero potuto rappresentare un problema iniziale che si sarebbe potuto gestire con un inserimento graduale, gettando una sorta di passerella in uscita dal ghetto».

Per il direttore scolastico della Lombardia Dutto «costituire classi con soli alunni appartenenti alla stessa religione contrasterebbe con i principi e i valori costituzionali tesi a superare ogni forma di discriminazione e a valorizzare l’integrazione e il dialogo fra culture».

Contro la classe costituita da studenti arabi hanno protestato per motivi diversi destra e sinistra. A destra si è gridato all’attentato identitario, a sinistra alla discriminazione. Contraria la Lega, che al grido «Scuola padana, mai musulmana», distribuendo in aula copie del Corano sostiene: «Se continuiamo a stare zitti, fra dieci anni Milano somiglierà a Teheran». Contrari i vertici di Rifondazione comunista, anche se alcuni consiglieri comunali precisano: «Lungi dall’essere soluzione generale, la vicenda può rappresentare un’utile provocazione». Contrari a «cinque anni di ghetto» anche alcuni tra i Ds, che subito invece avevano sostenuto il preside. Resta il problema, complesso, di come far accedere all’istruzione superiore ragazzi di culture diverse.

«Da parte dei ragazzi – racconta Abdallah Kabakebbji, delegato al dialogo dal direttivo del Gmi (Giovani musulmani italiani) – non c’è nessuna esigenza di avere scuole private islamiche. C’è nella comunità e nei genitori in particolare un forte desiderio di ritorno, in base al quale si vorrebbe far seguire ai propri figli un programma scolastico esclusivamente in arabo. Questo mito del ritorno è comprensibile per i genitori ma è inverosimile per i figli». «Le scuole private islamiche – aggiunge – non sono né praticabili né auspicabili. I giovani musulmani vogliono sentirsi cittadini a tutti gli effetti e vogliono esserlo nelle scuole pubbliche italiane. A noi non interessa che ci sia o meno l’insegnamento dell’Islam o dell’arabo, a noi interessa che sia una scuola aperta a tutti e che abbia indirizzi nazionali rivolti alla multiculturalità. La scuola è un ambito dove si incrociano relazioni umane ed è quindi la casa per eccellenza dell’integrazione».

Secondo Ali Abu Shwaima, 54 anni, medico di origine giordana, cittadino italiano, iman della moschea di Segrate, invece, la possibilità di creare scuole islamiche parificate «è un buon progetto: ci sono le scuole cattoliche, ci possono essere quelle islamiche, ma aperte a tutti», un po’ come anche le (poche) scuole ebraiche, viene da aggiungere. «Intanto, i nostri ragazzi possono frequentare un corso domenicale nei nostri centri, dove insegniamo l’arabo e la cultura religiosa. Se frequentano le scuole statali non possono seguire l’ora di religione islamica, mentre gli studenti italiani possono ascoltare le lezioni di religione cattolica ». Quindi «tutti nella stessa classe, ma con la possibilità, per chi lo richiede, di avvalersi dell’insegnamento della lingua araba e della cultura islamica».

Tra integrazionisti e comunitaristi

Ma il miglior commento l’ha fatto Paolo Naso, su Nev (Notiziario evangelico), distinguendo due modelli di integrazione: «il modello “integrazionista” proprio della tradizione francese – costruito sugli architravi dell’universalità dei diritti doveri del cittadino e della laicità della Repubblica – e quello “comunitarista” sperimentato, ad esempio, in Canada ... [che] ha elaborato una vera e propria scuola di pensiero sociologico e giuridico teso a garantire i legami interni alle singole comunità (communities) che compongono la comunità civile più generale (community)». In realtà «l’alternativa tra integrazionisti e comunitaristi appare troppo secca e i due modelli, pur nell’articolazione che ciascuno di essi esprime, potrebbero non aiutarci molto». Allora «tra l’una e l’altra strada richiamate, bisogna cercarne un’altra: quella della negoziazione di valori comuni ed irrinunciabili che consenta, ad un tempo, sia di rispettare le specifiche identità individuali e comunitarie che di costruire solidi legami di cittadinanza». Tornando al liceo milanese: «la risposta alla domanda identitaria delle famiglie musulmane, poteva essere un’altra. Non una classe “islamica” ma, salvaguardando il principio della laicità della scuola, una particolare attenzione alle particolari esigenze degli studenti musulmani. Esigenze culturali e didattiche da una parte - l’insegnamento dell’arabo, una particolare attenzione storico culturale al mondo arabo islamico, per altro da condividere con tutti i componenti della classe – ed etico religiose dall’altra: feste, norme alimentari, assunzione del problema della promiscuità durante le ore di educazione fisica ... Le soluzioni non sono dietro l’angolo. Richiedono conoscenza, fiducia, negoziazione. È la fatica di ogni pluralismo».

a. r.


 
 
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