ITALIA

Basse le tasse, bassa la politica


Il capo del governo italiano promette la riduzione delle tasse. I ministri dissentono sui modi: come e a chi. Lui ha vinto le elezioni nel 2001, anche per questa promessa. Siamo nel 2004 e ancora promette, in vista del 2006.

Promettere di ridurre le tasse è semplicemente blandire gli egoismi individuali; è antipolitica, perché la politica è l’affare di tutti sopra l’affare privato; è chiedere il potere politico per demolire la politica; è domandare la fiducia popolare per distruggere la fiducia sociale.

Le tasse sono il contributo di tutti, richiesto secondo le possibilità di ciascuno, e con «criteri di progressività» (art. 53 Costituzione), a finanziare la soluzione dei problemi comuni. La politica, cioè la gestione dei problemi comuni, deve anzitutto gestire bene le tasse, e ridurle solo se è possibile.

Le vere questioni, riguardo alle tasse, sono: come imporle e riscuoterle con giustizia; come impiegarle con correttezza, ragionevolezza, efficienza. Cioè: fare che non vi sia iniquità nel prelevarle; che non vi sia corruzione e ruberia nel gestirle; che siano destinate a scopi giusti e ragionevoli, decisi democraticamente; che siano spese senza sprechi.

Fare in modo che le tasse siano più leggere possibile, è pure giusto, ma è obiettivo secondario, da ricercare dopo la soddisfazione dei bisogni generali, dopo la fornitura di servizi generali alla società. Se sono pesanti i problemi generali, pesanti devono essere le tasse. Il motivo è questo: chi è meno ricco, oltre al contribuire meno dei ricchi, ha diritto a ricevere pari servizi sociali, che non potrebbe pagarsi da solo; e servizi efficienti, a carico di tutti, in proporzione delle possibilità, in base al criterio politico primario della solidarietà (art. 3 e art. 2 della Costituzione).

Ogni cittadino partecipa alla società, vi contribuisce e ne riceve sostegno in mille modi: col suo lavoro, manuale o intellettuale; con la cura delle relazioni umane; con la partecipazione politica; con la circolazione delle informazioni; con la trasmissione ed evoluzione della cultura e delle tradizioni; ed anche col contributo economico a lui possibile. Questo è il contributo più materiale, ma non meno necessario.

Esaltare, nel programma politico, la chimera dal pagare meno tasse, è rovesciare la gerarchia di valore della solidarietà. Chi ambisce anzitutto a pagare meno tasse, possibilmente niente, è uno che probabilmente cercherà il modo di evaderle; è uno che desidera anzitutto ridurre la propria solidarietà sociale, negandola a chi ne ha bisogno.

Per sé o per tutti? Questa è la discriminante di fondo che qualifica una società e una proposta politica. Non è per la polis, non è politica, il primato del «per sé».

Ridurre le tasse sarebbe impegno primario solo in una situazione in cui i servizi richiesti alla società dai bisognosi fossero già soddisfatti a sufficienza; è necessario nel caso di tassazione iniqua perciò gravante sui poveri più che sui ricchi: in tal caso le tasse devono essere ridotte agli uni, elevate agli altri.

Fuori da queste situazioni, dare la precedenza alla riduzione delle tasse significa supporre falsamente che ogni serio bisogno sia soddisfatto, ed è quindi, in sostanza, o negare l’esistenza di quei bisogni, o decidere che ognuno si arrangi: chi può può, chi non può non può. Per sé e non per tutti.

In realtà, è proprio questo che avviene. Sotto la demagogia del «meno tasse per tutti» c’è l’ideologia del «meno società per tutti», che equivale al «ognuno per sé», dunque ad una antropologia antisolidale. Ma la solidarietà è la coscienza del sapersi legati ad una serie di problemi comuni, quindi è l’anima della politica. Senza coscienza solidale, si dissociano le sorti, si spaccia per politica la guerra sociale degli egoismi, si abbandonano i bisognosi, guardati come giustamente condannati dalla sorte. Una tale pseudopolitica procura problemi e sofferenze invece di toglierne. È il rovescio della politica. E l’uomo che sbandiera come ideale e primaria la riduzione del contributo sociale, corrompe lo spirito pubblico, distrugge la politica mentre ne millanta un rinnovamento che è imbarbarimento. La sua mentalità è gretta, fissata nello spirito mercantile, nel culto dell’intraprendenza spregiudicata e del profitto. Vede la vita e la politica in questa unica ottica microumana. Perciò, è il più “inadatto” degli italiani a fare politica: costui raccoglie gli “inadatti” come lui, e corrompe cittadini sedotti dalla cultura dell’egoismo sociale. Questi risultati molto rovinosi sono l’effetto, nel terra terra quotidiano, dell’antropologia capitalistica, dell’uomo rovesciato, che pone come suoi fini i mezzi strumentali, il denaro, che perde i suoi simili perché non vive per loro.

Buddha insegna che i dolori seguono gli errori, fatalmente, come il carro segue il bue. Dopo i dolori può venire, se c’è qualche saggezza, la resipiscenza. Dopo Berlusconi, i suoi inganni, i suoi complici e i suoi molti ingannati, può venire un ripensamento. Se l’Italia imparerà la lezione. Se capirà che il danno di Berlusconi non è aver fatto una promessa impossibile, ma aver fatto quella promessa. Se l’opposizione lo accuserà delle promesse, e non dell’inadempimento. Se ci sarà qualche antica e nuova saggezza.

Enrico Peyretti

 
 
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