GIOVANI

Catone e i jeans a vita bassa


Il problema è ben noto: i jeans a vita bassa che imperversano tra le quindicenni e per contrastare i quali il preside di una scuola di Avezzano ha emanato un apposito decreto. Un insegnante-scrittore, Marco Lodoli su «Repubblica» (18 ottobre 2004) ha raccontato che una sua allieva, dopo la solita manfrina sulla cultura di massa e la ricerca di sé («Una vita che non si individua è una vita sprecata», Jung), ha detto: «Professore, ma non ha capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? I cantanti, i calciatori, le attrici, la gente che sta in televisione, loro esistono veramente e fanno quello che vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci. Siamo la massa informe». Un intervento illuminante.

Commenta non senza efficacia Lodoli: «Tanta disperata lucidità mi ha messo i brividi. A quindici anni ci si può già sentire falliti, parte di un continente sommerso che mai vedrà la luce, puri consumatori di merci perché non c’è alcuna possibilità di essere protagonisti almeno della propria vita. Si invidiano i vip solo perché si sono sollevati dal fango, poco importa quello che hanno realizzato, le opere che lasceranno. Questa è la sottocultura che è stata diffusa nelle infinite zone depresse del nostro paese, un crimine contro l’umanità più debole ideato e attuato negli ultimi vent’anni. Pochi individui hanno una storia, un destino, un volto, e sono gli ospiti televisivi: tutti gli altri già a quindici anni avranno solo mutande firmate da mostrare su e giù per la Tuscolana e un cuore pieno di desolazione e di impotenza».

La mia reazione di fronte a queste scoperte sensazionali sulla decadenza e il degrado umano dei nostri tempi, e soprattutto dei giovani, è di «scetticismo». Non possiamo cadere nella trappola. È almeno dai tempi di Catone che ci si lamenta argomentando in modo convincente che «non è più come una volta», che «i giovani d’oggi», «i bei tempi andati»... E via rimpiangendo. Proprio il foglio aveva iniziato tempo fa (autore Dario Oitana) un bel ciclo di interventi smitizzatori dei bei tempi andati, con abbondanza di citazioni sulla criminalità torinese, la violenza diffusa, il degrado, ecc. Ciò non significa sminuire il micidiale condizionamento sociale e della moda, soprattutto sui giovani, ma non è certo una novità di oggi.

Quando io avevo quell’età (vent’anni fa circa) era scoppiata la moda «paninara»: gli stessi vestiti, la stessa pettinatura, la stessa musica, gli stessi miti, le stesse parole d’ordine, gli stessi modi di parlare, luoghi comuni, luoghi fisici, le stesse moto. Oggi, rispetto ad allora, il panorama delle tribù metropolitane giovanili sembra persino più variegato. Io allora sono stato salvato dall’inaccessibilità dell’abbigliamento, ma non nascondo che se solo avessi potuto mi sarei vestito come loro, e non cercando imitazioni a basso costo. Quasi tutti i miei amici e conoscenti sono passati attraverso quella fase, privilegiati/ricchi o meno, e ritengo che, nell’imbecillità generale che ci caratterizzava, quello sia stato un fenomeno di costume tanto idiota e deprecabile quanto irrilevante per i nostri destini.

È vero che in questi venti anni la situazione può essere peggiorata drammaticamente (non mi sembra: detto fuori dai denti, i miei studenti di oggi mi sembrano molto meno idioti di quanto non fossi io alla loro età...), ma se in una generazione scarsa la situazione può degenerare così tanto, dove saremmo arrivati dai tempi di Catone? D’altra parte, fino a trent’anni fa non c’era questa televisione. Questa è forse la variabile decisiva su cui puntare l’attenzione, e tutto ciò che ho scritto non vuol dire che rifiuto il problema, ma che lo relativizzo e lo tengo aperto.

Claudio Belloni

 
 
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