INTERVISTA A PAOLO DE BENEDETTI
Dio? Una domanda nella storia

Con questa intervista e l’intervento di Peyretti continuiamo la riflessione teologica iniziata sul n. 308 (Dio?! Parliamone da vivo!), e proseguita con gli interventi di Guido Armellini (Dio? Teniamo aperto il litigio, n. 311), Daniele Garota (La potenza di un Dio che è morto, n. 313) e Guido Allice (Certezze razionali e atti di fede, n. 314), e la lettera di una lettrice (n. 312).
Seguono due poesie di De Benedetti al gatto Martino, la seconda delle quali inedita.


Il linguaggio che i teologi cristiani usano per scrivere di Dio è in genere iperbolicamente laudativo. Sembra di leggere un “coccodrillo”, il panegirico di un morto. Non così nella Bibbia, dove Dio è interlocutore di un dialogo che lo fa sentire ben vivo e problematico, e non così nella tradizione ebraica, in cui la lotta con Dio, la contesa, il riv, assumono toni di singolare durezza. Come bisogna, dunque, parlare di Dio?

Parlare di Dio è oggi una necessità. Ma questo già ci dice che è anche un dramma o, se vogliamo, segno che si è consumata una tragedia, che ha coinvolto non solo gli uomini ma anche Dio. Mi spiego meglio. Il credente non dovrebbe tanto sentire il bisogno di parlare di Dio, quanto di parlare a Dio, o al più, come fanno i profeti, di parlare in Suo nome. Nella Bibbia Dio è interlocutore vivo di un dialogo, perché con lui si parla, si sente la sua voce, lo si può invocare e anche rimproverare. Dio stesso d’altra parte chiama a giudizio l’uomo e lo ammonisce, manifesta la sua ira, il suo compiacimento, il suo amore, il suo pentimento. Tra uomo e Dio si parla, come è naturale tra partner che si riconoscono.

Di Dio comincia a diventare necessario parlare quando non lo si riconosce più; quando è accaduto qualcosa che ne ha reso problematica l’immagine, che ha scosso la nostra incondizionata fiducia; quando la relazione reciproca è messa in forse, in pericolo.

Come ho scritto nella prefazione al mio libretto Quale Dio? (Morcelliana, 1996, pp. 9-10): «Se Dio c’è, oggi ha più che mai bisogno ... non di difensori modellati sul Satana del Processo di Shamgorod (E. Wiesel, Giuntina, 1986), ma di credenti critici che lo spoglino della sua maschera imperiale e mostrino le sue ferite ... Noi cerchiamo infatti un altro Dio, che non meni vanto di questo mondo così infelice. Noi abbiamo bisogno di cambiare Dio per conservarlo (e perché lui conservi noi). Forse ciò vuol dire soltano cambiare il nostro modo di pensare Dio. O forse no».

Ecco perché parlare di Dio non è un sereno illustrare l’assoluta impassibilità dell’Essere “di cui nulla si può pensare di maggiore”, non è dimostrare che la sua perfezione esige l’onnipotenza, l’onniscienza e l’eterna e necessaria coincidenza tra potere e volere. Parlare di Dio mette tragicamente in dubbio tutto ciò, ne denuncia l’incompatibilità con la libertà e con l’amore, con l’insostenibile peso del male che sfigura la creazione e travolge la storia.

Giobbe e Qoelet

Ti riferisci certo alla difficoltà di parlare di Dio dopo Auschwitz e dopo le tragedie del secolo appena trascorso. Davvero ci si chiede, vedendo la sua ombra di morte proiettarsi sul presente: «Adamo dove sei? E dove sei tu, Dio di Mosè e di Cristo, spacciatore di incredibili promesse?». Ma poi tornano in mente Giobbe e Qoelet e si scopre che di Dio, nel senso critico che tu proponi, già si cominciava a scrivere quando ancora si parlava fiduciosamente a Dio.

Certo, alla contesa con Dio si è sempre accompagnata una discussione su Dio. Geremia, da vero profeta, è tutt’uno col Signore anche quando protesta ed espone le ragioni di una possibile ribellione. Dio lo ha violentato, imponendogli una missione di sventura, ma lui non può far tacere il fuoco che dentro gli ha acceso la parola divina (20,7-18). Giona, da figura letteraria di profeta, può già prendere da Dio una certa distanza e rinfacciargli l’idea che se ne è fatto: «Già lo sapevo che sei un Dio misericordioso che si lascia impietosire del male promesso» (4,2). Giona parla a Dio di Dio, denunciando così il marasma della crisi spirituale in cui si dibatte.

I libri sapienziali amano parlare di Dio mettendo in scena un dialogo con Lui. Essi infatti stanno a valle di una seria crisi dell’immagine ebraica di Dio: crisi dell’immagine profetica, ma a ben vedere anche di quella deuteronomistica ed esodica. Così Giobbe e in modo diverso Qoelet.

Il lungo dialogo tra Giobbe e gli amici è tutto un parlare di Dio. Dio come persecutore ingiusto delle sue stesse creature, come potere assoluto e amorale contro cui s’invoca un divin difensore, a detta di Giobbe; Dio come giudice equanime e misericordioso che chiede solo sottomissione e confessione di colpa, a parere degli amici; Dio come forza generatrice sovrana e imperscrutabile, a sentire Dio stesso, che alla fine interviene nella discussione rendendola un dialogo. Giobbe si sottomette, ma nulla è risolto. La relazione è ristabilita, così da ricondurre il parlare di Dio a parlare con Dio, e la crisi si ferma sul baratro. L’equilibrio raggiunto è, però, quanto mai precario e può essere accettato solo se Giobbe non si accontenta di nuovi figli, in sostituzione di quelli uccisigli da Dio, ma ottiene, come recita un midrash islamico, che proprio questi risorgano.

Con Qoelet la musica cambia. Non sta nel suo orizzonte neppure l’ipotesi di avvicinare Dio nel dialogo. Il Maestro parla all’uomo della condizione umana. Nega che ci sia finalità nella storia, giustizia nelle vicende umane, punti fermi a cui ancorarsi. Dio resta lontano, lontanissimo. Prossimi sono i dolori e i piaceri della vita. Sfuggire ai primi è quanto mai problematico; raggiungere una parte almeno dei secondi è raccomandabile, ma senza perdere il senso della loro precarietà. In quanto a Dio è bene ricordarsene come creatore nei giorni della giovinezza, prima che la vecchiaia e la morte portino via ogni gioia e ogni luce.

C’è teologia in Qoelet o non c’è piuttosto solo umana saggezza, al limite dell’ateismo? Lascio la risposta al rabbino Laras: «Per chi ha una fede problematica e tormentata, che non riesce a seguire con serenità l’insegnamento biblico, la presenza di Qoelet tra i libri che sporcano le mani significa: sappi che nella Bibbia c’è un libro anche per te, un libro che non conclude, un libro che ti dice che anche tu hai posto tra i ricercatori di Dio».

Creatore e salvatore

Se c’è qualcosa che accomuna la sapienzialità di Giobbe, Qoelet e persino di Giona, è la valorizzazione del Dio della natura a scapito del Dio della storia. Tra il Dio creatore, quello che fa le cose come stanno, e il Dio salvatore, quello che dall’imperfezione del creato e dai mali della storia, naturale e umana, redime, c’è tensione. A chi lo denuncia i “monsignori” sono pronti a lanciare l’accusa di marcionismo. Ma anche senza cadere con Marcione nella radicale contrapposizione tra i due, il problema resta. La salvezza per il credente biblico non sta nel ritorno alla natura e neppure nel rispetto delle sue ipotetiche leggi, ma in una condizione alternativa alla natura e alla storia presente. Una condizione simbolicamente espressa dal Terzo Isaia come «cieli e terre nuove», dai vangeli come «regno di Dio», da Paolo come «vita nuova, risorta e spirituale».

Bel problema. Certo non possiamo cavarcela ricordando che in Genesi 1 Dio si compiace della bontà della sua opera. Più che una constatazione sembra un auspicio, destinato a finir male , se è vero che pochi capitoli dopo, vedendo come essa si sia riempita di mali, decide di distruggerla. Ma noi sappiamo che, tanto nel primo quanto nel secondo caso, la Bibbia si serve di “figure”.

Io poi non separerei il Dio della natura dal Dio della storia. Sono un tutt’unico e seguono insieme un analogo destino di esaltazione e di umiliazione. Tant’è che i racconti genesiaci della creazione non sono stati scritti prima ma dopo quelli dell’Esodo e sono inseriti ad apertura della Bibbia per giustificare l’elezione e la conseguente azione salvifica di Dio nella storia. Come a dire che Dio-Jhvh ha il diritto di fare quel che ha fatto per Israele e quel che fa e si prepara a fare per il bene finale di tutti gli uomini, perché è il creatore di tutto e l’iniziatore della storia. Col che né la natura, né la storia sono al sicuro dal male.

Dopo l’episodio del vitello d’oro, a Mosè che gli chiede di mostrargli il suo volto, Dio risponde che potrà al più fargli vedere il suo «dietro» (Es 35,23). Il volto di Dio è tutto ciò di cui abbiamo sete e fame: è gioia, riposo, gusto, ritrovamenti innumerevoli. Il suo «dietro» o «dopo» può essere tanto la sua presenza nascosta e indecifrabile nella storia, quanto la sua assenza. Non è certo, in ogni caso, un’ostentazione di gloria e di potenza, ma se mai di fragilità, di vulnerabilità.

I rassicuranti orizzonti metafisici di Leibniz, di Hegel, di Tommaso, di Agostino, del Vaticano I, sono svaniti come un miraggio davanti alle esperienze che hanno polverizzato i loro maestosi edifici della teodicea, della teologia razionale, dell’apologetica, del trattato De Deo; la polvere è salita fino ad oscurare Dio. Quando si è presa coscienza di questa rovina, il problema del male è apparso in tutta la sua rinnovata e inviolata grandezza.

E allora? Allora non resta che riaccostarsi allo spirito di consolazione con cui il secondo Isaia apre il suo cammino di speranza: «Consolate, consolate il mio popolo»: recita il versetto 40,1 e i maestri dell’ebraismo ci hanno insegnato che esso può anche essere tradotto: «Consolatemi, consolatemi, popolo mio». Dio consola l’uomo per le sofferenze, anche ingiuste, che lo feriscono ogni giorno, per il male, che contro ogni umano e divino volere, lo tormenta; e l’uomo consola Dio della rovina della sua creazione, del ritardo, dell’impossibilità di compiersi della sua redenzione. Del resto Dio non ha creato il mondo per poter dialogare con esso e trarne motivo reciproco di gioia? Consolare, essere consolati è un po’ salvare ed essere salvati. È principio e anche essenziale manifestazione di salvezza (Ap 21,4). Così, possiamo ben dire, che l’uomo attende consolazione e invoca salvezza da Dio e che Dio spera possa venirgli dall’uomo alcunché di analogo.

Dio, l’uomo e il male

Mettere Dio sotto processo per la presenza massiccia del male nella nostra vita, mi sembra non ci esima dall’interrogarci su quell’enorme fonte di mali che è l’uomo.

Giustissimo. Un po’ sul serio un po’ per gioco mi capita spesso di dire che Dio avrebbe dovuto finire la sua creazione a metà del sesto giorno, dopo aver creato gli animali, prima di dare vita all’uomo. Anche per questo oggi dedico sempre più attenzione al mondo dei viventi: cani, gatti, asini e – perché no? – alberi. Essi sono innocenti e soffrono egualmente dei mali. Mi capita spesso di vedere in loro un’immagine di Dio. Certo l’uomo merita enorme attenzione e, in alcune cose, anche ammirazione. Ma l’uomo è uno straordinario e terribile artefice di sofferenza per sé e per gli altri, per le creature viventi e persino per Dio. Dio lo ha creato capace di ciò, lo ha fatto a sua immagine e somiglianza, gli ha dato più attenzione che ad ogni altra sua opera. Porta dunque una parte almeno della responsabilità delle sue azioni. Caricare sull’uomo ogni responsabilità dei mali della terra e della storia per sollevarne Dio non mi sembra corretto. Proprio come mi sembrano gravi errori le teorie agostiniane del peccato originale e della nullità del male.

Io preferisco un’altra strada. La strada di chi denuncia la presenza del male, alza all’uomo e a Dio la sua protesta e attende il mondo futuro per avere risposte. Sono certo che il mondo futuro, che la resurrezione dei morti sia più necessaria a Dio che a noi. Gli servirà per spiegarci finalmente quello che, restando inspiegato, rende assurda ogni sua opera e inattendibile ogni sua promessa.

Abbiamo parlato di Dio con grande sincerità e libertà. Non lo avremo offeso?

Me lo chiedo anch’io, ma poi trovo conforto nelle storie rabbiniche in cui Dio, messo a tacere dai maestri in discussione, si rallegra perché i suoi figli lo hanno vinto. Del resto di Dio si parla sempre per metafore e sotto condizione: «ae così si può dire». Raccontare storie è la migliore relazione teologica possibile con Dio. Chi racconta storie su Dio, magari per contestarlo e persino negarlo, non fa che manifestare la sete che ha di Lui, che testimoniare la sua fede estrema.

Elie Wiesel ci trasmette in proposito questa storia, vera e simbolica insieme, raccontatagli da un giovane sopravvissuto ai campi di sterminio. «Un giorno un ufficiale nazista prende mio padre, lo minaccia e lo lusinga perché rinneghi il suo Dio. Ma quello muto. Gli spara ad un braccio, poi all’altro, quindi alle gambe, infine lo uccide. Non potevo credere a quel che vedevo. Tutto era assurdo in quella scena. Deve sapere, infatti, che mio padre era ateo». Un ateo martire per Dio.

Intervista raccolta da Aldo Bodrato e Antonello Ronca


 
 
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