CINEMA
I conti che non tornano


È un film serio e affettuoso, Mare dentro, di Alejandro Amenàbar. Non è una semplice propaganda anticattolica dell’eutanasia, anche se un prete tetraplegico come il protagonista non è una figura positiva.

«La vita è un diritto, non un obbligo». «Peggio della morte di un figlio, è che il figlio voglia morire». «La persona che mi ama è quella che mi aiuta a morire». «Dopo la morte sarà come prima di essere nati. Questo è un presentimento, non una certezza ». In queste affermazioni si legge da vari lati l’ideologia del film, che prende lo spunto da un fatto reale: il protagonista, che ha tutto il corpo meno la testa sepolto dentro la paralisi, vuole morire e lo vuole con piena lucidità.

Già la prima di quelle idee si può discutere: la vita è un diritto ricevuto, come ricevuta è la vita; anche senza religione comprendiamo che non ce lo diamo né conquistiamo da soli. Il diritto ci costituisce, ma non ce lo facciamo noi. Siamo liberi e inviolabili, ma genitori società e storia ci fanno ciò che siamo. Siamo nell’età dei diritti (Bobbio), ma Simone Weil, Emmanuel Levinas, e altri apritori di vie, mostrano che l’obbligo reciproco (legame vitale, che nel film appare bene, senza oppressione moralistica) precede ogni rivendicazione di diritti. La dichiarazione dei diritti (oggi proclamati, offesi e anche unilateralmente pretesi) è ora di completarla con quella dei doveri, in cui i diritti altrui sono riconosciuti come coessenziali ai nostri.

Ma la chiave del film è nelle parole del protagonista: «Non mi tornano i conti con la felicità». È naturale, amico: non tornano a nessuno che abbia, come hai tu, qualche grandezza d’animo, anche se non ha la tua grande disgrazia. La tua infelicità è pesante – tu piangi ridendo – ma la tua coscienza, dignità, desiderio e capacità di relazione, sono grandi. Guarda Julia: lei perde anche memoria e coscienza. Kant ha visto bene: la non corrispondenza tra virtù e felicità in questa vita postula una vita ulteriore e un Dio che fa tornare i conti. Tu propendi a escludere questa possibilità. Nel tratto tra nascere e morire, per lo più il conto non torna.

Il film, nell’intento del regista, vuol fare riflettere. E dunque è nella riflessione che va meditato. Sul suicidio dice parole orientatrici Bonhoeffer (Etica, Bompiani 1969): se l’uomo è solo nella realtà, può deporre a suo solo giudizio la vita che gli è capitata; se riconosce un’origine e un termine vivente (ciò che le religioni in vari modi chiamano Dio), allora la vita è il campo di una relazione costitutiva profonda, da non spezzare, da vivere insieme, con responsabilità personale ma non solitaria. «Il suicidio va condannato in quanto peccato di incredulità »: senza questo motivo, per chi non è credente, non c’è ragione di considerarlo riprovevole (op. cit., pp. 140-41). Bonhoeffer, che scrive in Germania nel 1940-41, avverte: «La distinzione tra vita degna e vita indegna distrugge presto o tardi la vita stessa» (p. 137).

Ma il film di Amenàbar non è una discussione teorica: il problema è posto con dolcezza, in una trama di rispetto e di amore delicato.


E.P.



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