CINEMA
Un Ghost d’autore


Quella del rapporto fra morti e vivi è idea cinematograficamente assai sfruttata, come in letteratura del resto. Varie le forme: dalle tinte sentimentali della commedia leggera, da Joe il pilota a Ghost, alle inquietudini paranormali, notissimi i recenti Il sesto senso e The Others, sino al filone orrorifico dei morti viventi, che ha in Romero il suo inarrivabile pontefice massimo, e che trabocca di capolavori misconosciuti, autoironie sorprendenti, profondità filosofica, oltre a tanta maniera senz’anima ovviamente.

A dispetto di questo grande affollamento, Rivette con Storia di Marie e Julien è riuscito in un’ammirevole variazione sul tema, carica di uno sguardo inconsueto, in cui s’addensa l’emozione di tutto ciò che sembra essere visto per la prima volta. Insomma un capolavoro, o quasi; affermazione che chi scrive si sente di pronunciare senza eccessive timidezze, non essendo mai stato che un ammiratore piuttosto tiepido del suo cinema, nonostante una Giovanna d’Arco scabra ed ispirata, che odora come pochi altri film di Medioevo autentico, o una complessa riflessione sulla pittura, sul cinema e sul doppio come La bella scontrosa, in cui troneggia una Emmanuelle Béart capace di avvolgere interamente la scena grazie alla sola presenza fisica, cosa in parte replicata anche in quest’ultima opera.

Storia di Marie e Julien risale ad un progetto dei primi anni Settanta, sarebbe dovuto essere il capitolo di una tetralogia, di cui all’epoca furono girati unicamente Noiroit e Duelle, al quale lo lega qualche affinità.

Possibile omaggio ai Mani di Cocteau e di Poe (Nevermore si chiama il gatto di Julien), il film può considerarsi un «noir esistenziale», come lo ha definito Mattia Nicoletti, incentrato su di una storia d’amore difficile da dimenticare. Immerso in un’atmosfera rarefatta, sembra eleggere, fatto ricorrente in Rivette, la lentezza e la sospensione a chiavi estetiche, svelare attraverso la dilatazione. Ma riuscendo a tenere a distanza la noia ed il “gioco” intellettuale (come in altri casi non gli era accaduto), nonostante qualche enfasi letteraria nei dialoghi e l’emergere qua e là di un desiderio troppo scoperto di volersi “autore”.

Storia di Marie e Julien è un film costruito su di una sequenza di misteri, con al vertice un mistero che sembra inglobarli tutti: il tempo, o il Tempo, come scriverebbero alcuni professori di filosofia. Un tema prioritario in Rivette. A suggerirne da subito la rilevanza è il mestiere di Julien: riparare orologi; orologi grandi, enormi, carichi d’anni, dei quali la sua casa è ricolma. E questa stessa casa, attraversata da piani sequenza che instillano un disagio sottile, è, ancor più dei due meravigliosi protagonisti, il perno della storia. Questa casa – esplorata con meticolosità da Marie – di cui non si scorge nessuna riconoscibile delimitazione, in cui si incontrano stanze vuote, cianfrusaglie, abiti dismessi, scale attraversate rapidamente si direbbe proprio una possibile immagine del tempo. Un tempo che pare avvolgersi su se stesso, un tempo a strati forse, certo tutt’altro che lineare o interpretabile secondo una semplice dicotomia eternità-finitezza. Dominato da leggi enigmatiche di cui anche i morti non conoscono pressoché nulla. Una forza carica d’inesorabilità ma in cui parallelamente affiorano, o paiono affiorare, scappatoie impreviste, popolata come la “storia” di Montale, di «buche e nascondigli». È l’amore la privilegiata fra queste scappatoie? L’amore, che dispensa la vita, riesce ad attraversare indenne la morte, a soggiogarla? Forse sì, forse in qualche caso. Ma il film non rappresenta che un frammento di labirinto senza risposte, si alimenta di ombre e d’incertezza, di dubbi senza consolazione, di lacune e di ellissi, di specchi che non riflettono, di parole facili a fraintendersi, allude ad una durata incalcolabile e a movimenti circolari, perché comincia nel momento in cui finisce: e potrebbe riprendere la strada già percorsa o imboccarne un’altra del tutto nuova.


Massimiliano Fortuna




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