ALLA RICERCA DEI VANGELI/2 |
Crediamo in Gesù o in Giovanni Battista? |
Durante il periodo della prigionia di Giovanni quest’ultimo assistette allo sgretolarsi delle sue aspettative ed all’ascesa di Gesù, ma le scelte dell’antico discepolo sembravano divergere nettamente dalle aspettative personali di Giovanni. L’ambasceria di Giovanni (Mt 11,2-3) dà l’impressione di riflettere un fatto autentico, giacché stona rispetto a quanto ci aspetteremmo in un racconto inventato dalla chiesa primitiva per esaltare Gesù come la figura escatologica definitiva o per convertire i settari battisti persuadendoli che questo è ciò che Giovanni cercava. Invece Giovanni domanda: «Dobbiamo aspettare un altro?». Nella risposta, Gesù non pone se stesso ma il regno potente di Dio al centro della sua proclamazione. Le opere compiute da Dio tramite Gesù proclamano che la fine – una fine gioiosa, non di fuoco – è alle porte. La risposta a Giovanni è coronata da una beatitudine che è nello stesso tempo una viva istanza al suo antico maestro: «e beato colui che non si scandalizza di me». Un silenzio assordante È Giovanni colui che corre il rischio di essere bloccato nella fede a causa del modo sconcertante e traumatico con il quale Dio sta adempiendo le profezie sul tempo finale. Il brano si chiude semplicemente con una supplica viva e delicata; non c’è nessuna replica da parte di Giovanni. Né qui né altrove, il materiale Q asserisce che Giovanni abbia risposto favorevolmente a questo appello di Gesù. Ugualmente, il racconto in Marco dell’esecuzione di Giovanni, per quanto fantasioso e non storico possa essere («leggenda di corte» secondo Theissen), non osa affermare che il Battista si accinse a morire professando la sua fede in Gesù. Sembra invece che Giovanni morì ancora con degli interrogativi, insicuro su Gesù e sulle modalità in cui questi rientrava o no nelle sue speranze. Questo silenzio è il punto più sbalorditivo della nostra pericope e, forse uno dei migliori argomenti a favore della sua fondamentale storicità. Se i primi cristiani inventarono questa pericope come mezzo di propaganda contro la setta dei battisti della loro epoca, allora questi cristiani avevano davvero una strana idea della propaganda. Il silenzio di Giovanni si staglia in forte contrasto con le precedenti reazioni del Battista, frutto dell’apologetica cristiana. Nella beatitudine di Gesù verso quelli che non si scandalizzano è implicito l’avvertimento che chiunque rimane bloccato dalla natura inattesa del suo ministero, non parteciperà alla felicità escatologica che Gesù porta con sé. Questa implicita minaccia destinata al Battista non offre nessun bel finale. La sua origine più probabile è la vita di Gesù (185-194). Giovanni grande e piccolo «Non è sorto tra i nati di donna uno più grande di Giovanni. Tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11). Al centro della scena non c’è Gesù né le sue opere, ma la persona di minore importanza (e pertanto chiunque) nel regno di Dio. Un mondo sta scomparendo dato che le guarigioni, la gioia e la festa del regno irrompono con la missione di Gesù. Chiunque è entrato nel nuovo “campo di forza” che è il regno di Dio, ha un rango più alto persino del più grande personaggio nel vecchio stato di cose. È difficile immaginare come la chiesa primitiva, nella sua proclamazione di Gesù come Messia, Signore o Figlio, abbia potuto inventare un detto che dichiarava nella prima metà che Giovanni era il più grande essere umano mai nato e nella seconda metà un detto che mancasse di ogni interesse cristologico (207-208). Importante per noi è l’affermazione sul regno di Dio in un certo senso già presente. Mentre nel vecchio mondo il Battista è il più grande degli esseri umani, chiunque accoglie il gioioso messaggio di Gesù gode di una condizione più elevata perché è già nel regno di Dio, sta già sperimentando nella sua vita il dominio potente, redentivo, salvifico e beatificante di Dio. La sostanza di questo contrasto fra due persone, ciascuna nella propria esistenza particolare e concreta, è che al più piccolo non viene semplicemente promesso un regno che verrà. Egli vive nel regno adesso dal momento che esperimenta qualcosa capace di trasformare la sua vita. Egli è più grande del Battista adesso perché lui è nel regno adesso. La fine dei tempi che Giovanni aspettava e proclamava è in un certo senso arrivata. La svolta è arrivata. Il regno di Dio è qui, pronto per essere sperimentato (475-476). Un annuncio gioioso Al termine della piccola parabola sui «fanciulli capricciosi» il Figlio dell’uomo è accusato di essere un mangione e un ubriacone, mentre Giovanni, che non mangia e non beve, è visto come un pazzo (Mt 11,18-19). Appare fortemente improbabile che la chiesa primitiva abbia creato un detto che trasformava il messia crocifisso e risorto, il Figlio dell’Uomo che deve venire, in una figura profetica semplicemente uguale, anche se alternativa a quella del Battista. L’improbabilità diventa quasi un’impossibilità se notiamo che Gesù era tacciato come un mangione e beone nella sua indecorosa ricerca di discepoli tra esattori delle tasse, notoriamente ladri, e tra persone completamente malvagie cui nessun giudeo rispettabile, fariseo o non fariseo, si sarebbe associato. Gesù offriva un ingresso facile, gioioso, nel regno di Dio che proclamava. Come poteva questo Gesù essere un vero profeta e riformatore quando appariva come un ghiottone ed un ubriacone, uno che fraternizzava con gente che derubava i propri connazionali giudei peccando intenzionalmente ed abominevolmente, rifiutando di pentirsi? Era a questi maledetti che Gesù osava offrire il perdono e un posto nel regno di Dio, senza apparentemente esigere come previo requisito la loro sottomissione all’usuale processo di reintegrazione nella società religiosa giudaica. Oltrepassa i limiti della dabbenaggine pensare che la chiesa primitiva abbia potuto creare un detto così caustico e ostile su Gesù, se questo non fosse esistito anteriormente (218-220). A questi detti segue il rimprovero violento alle città impenitenti. Non può stupire che prima dell’invettiva a «questa generazione» simile ai fanciulli capricciosi, si situi un altro detto oggetto di diverse interpretazioni: «Dai giorni di Giovanni fino ad ora il regno dei cieli è preso a forza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12). Anche se alquanto oscuro ed ambiguo, il detto sembra indicare che Giovanni Battista fu, agli occhi di Gesù, una figura di primaria importanza in un momento di passaggio nella storia di Israele. È improbabile che la chiesa primitiva, impegnata com’era nell’asserire la superiorità di Gesù su Giovanni, potesse creare un passo che attribuisce a Giovanni l’atto decisivo nel trapasso degli eoni (244). Prima di Giovanni la legge e i profeti erano la sintesi e la guida della vita religiosa di Israele. Dopo di lui la realtà nuova totalizzante e assolutamente preminente è il regno di Dio, sottoposto a violenza da parte di coloro che vi si oppongono. Come al solito è il regno, non Gesù stesso, il principale punto focale: questo depone in favore dell’attendibilità storica del detto. Ma il regno di Dio non subirebbe alcuna violenta opposizione se Gesù ne parlasse come se non avesse assunto una forma concreta, visibile nelle sue parole e nelle sue azioni. L’idea stessa del regno di Dio che subisce tale violenza è una nozione assurda e inconcepibile, estranea all’Antico Testamento, alla letteratura intertestamentaria e al resto del Nuovo Testamento. Questa idea implica che il dominio regale di Dio, che è nella sua essenza trascendente, eterno, invisibile e onnipotente, è in qualche modo diventato immanente, temporale, visibile e vulnerabile. Rispetto al regno futuro che viene nella gloria, il regno presente è ambiguo, fonte di gioia e di grandezza, ma anche segno di contraddizione, soggetto all’opposizione violenta da parte di coloro che lo rifiutano adesso (477-478). Diversamente da come viene presentato dall’apologetica della chiesa primitiva, come appare evidente in molti passi neotestamentari e nella teologia posteriore, il contrasto fra l’annuncio gioioso di Gesù e le minacce infuocate di Giovanni risulta stridente. È il contrasto fra un cristianesimo minaccioso e giudicante, tutto proiettato nell’aldilà, e l’annuncio gioioso e sorprendente della buona novella del regno di Dio presente già adesso solo parzialmente con un potere salvifico e beatificante, mescolato curiosamente con la vulnerabilità e la violenza. È una scelta che si impone anche a noi. Dario Oitana I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine di Un ebreo marginale, vol. II di Meier (vedi numero precedente). |