INTERVISTA A UN GIOVANE UNIVERSITARIO STRANIERO

Dal Cairo al Politecnico


Il più votato a Torino per il Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari (CNSU) è stato Sherif El Sebaie, egiziano, 23 anni. Titolare di un corso di lingua e cultura araba che si tiene presso il Politecnico di Torino, collaboratore con Al Jazeera, esperto di calligrafia araba... ha anche curato una bella mostra su «Islam e Cristianesimo ortodosso» al Politecnico di Torino, dove studia ingegneria elettronica. Faceva un certo effetto vedere il Vangelo in arabo...

Qual è la tua esperienza di universitario?

L’esperienza che ho fatto qui a Torino non è molto diversa da quella che hanno fatto altri miei compagni di scuola che sono andati a Roma, a Milano, a Catania. Tutti gli studenti stranieri incontrano le stesse difficoltà. La principale è trovare casa: non è solo un problema di Torino e non è neppure legato soltanto ai paesi oggi considerati a rischio (io sono arrivato prima del fatidico 11 settembre...). Sarà che il giovane è visto come una persona irresponsabile, ma questo è un punto di vista un po’ strano: uno studente che ha deciso di lasciare il suo paese per venire a fare cinque anni all’estero non dico che sia più serio di un universitario che fa l’Erasmus, ma ha un approccio diverso nei confronti della sua permanenza qui. Torino, forse, ha forse qualche problema in più... mi hanno detto che anni fa anche i meridionali hanno avuto lo stesso problema... Io penso che escludere una persona per via delle sue origini sia una cosa di cui ci si debba vergognare...

Come mai hai deciso di trasferirti in Italia?

Perché ho studiato all’Istituto salesiano del Cairo. Si trattava di una scuola perfettamente italiana, riconosciuta anche dall’autorità egiziana: per cinque anni ho studiato tutte le materie in italiano e ho fatto l’esame di maturità italiano, fatto nello stesso giorno (la commissione era venuta da Roma con l’aereo!). L’impostazione era completamente diversa da quella della scuola egiziana: per dire, i libri di testo erano quelli italiani, il supporto delle lezioni di chimica era Superquark!, i temi li facevamo sulla proposta Ds di legalizzare la droga, e, se si discuteva della “clonazione” del Nilo, attingevamo informazioni dal «Corriere della Sera» e da «La Stampa». L’unica differenza è l’inno alla bandiera egiziana di mattina! I salesiani parlano benissimo l’arabo, però a lezione si rifiutavano di usarlo. Alcuni professori, invece, non sapevano una parola: ricordo la prima lezione di chimica, tutta in italiano: non capivo niente. C’erano studenti italiano figli di consulenti o di personale dell’ambasciata che facevano un po’ da tramite, magari con esiti esilaranti perché traducevano una parola normale con una parolaccia...

Perché hai scelto di trasferirti proprio Torino?

Per la fama del suo Politecnico. Ho iniziato così la trafila per l’iscrizione, che non è una cosa facile. C’era anche una tradizione antica, quando c’era la Fiat al Cairo, di mandare i migliori studenti dell’Istituto a migliorare la lingua e le conoscenze tecniche proprio a Torino. Quando è capitato a me, la tradizione della borsa per l’Italia era ormai finita da tempo. Sono arrivato a Torino alle 2 del mattino in aereo, senza conoscere nessuno. Alle informazioni turistiche all’aeroporto chiedo un albergo a buon prezzo e me ne indicano uno vicino alla stazione. Portandomi, il tassista mi diceva che la zona era piena di immigrati e passando davanti alla sinagoga mi dice: «Qui c’è anche la moschea»... Era sintomatico scoprire che un cittadino torinese fosse convinto che quell’edificio era una moschea e non una sinagoga in stile moresco, come effettivamente traspariva dalla scritta ebraica sul frontone! In albergo ho passato un mese, perché, saputo che ero egiziano, tutti si rifiutavano di affittare l’appartamento. Poi finalmente ho trovato un alloggio, mi sono fidato del proprietario, l’ho messo a posto, e dopo tre mesi mi ha detto che ne aveva bisogno e ho dovuto cercarmene uno. Cominciavo già a pensare di dovermene tornare in Egitto... Poi al Poli vedo un annuncio di appartamenti liberi per studenti... e finalmente è andata bene, ma ho perso un anno in questa trafila.

E l’altra trafila, quella del permesso di soggiorno?

Una cosa pazzesca: capisco la burocrazia e tutto quanto, ma dover perdere giornate intere per chiedere o rinnovare questo permesso è veramente stancante... Fare la fila dalle 6 di mattina mentre l’ufficio apre alle 9 e sul cartello c’è scritto «Non fare la fila prima delle 9», solo che se non la fai finisci per non prendere il numero e non entri. E poi aspetti in condizioni poco confortevoli, ti dicono che l’ufficio cambierà sede. Sono passati tre anni...

E dopo aver risolto questi problemi?

...finalmente mi sono potuto dedicare all’università: sono stato tra i primi a beccarmi la riforma universitaria, con esito disastroso: tra crediti, programmi che dovevano essere cambiati, docenti che non sapevano che cosa dovevano fare esattamente, esami che corrispondevano al vecchio ordinamento ma non erano adatti al nuovo. In un certo senso è stata questa confusione a spingermi a candidarmi come rappresentante studenti. Al Cairo ero già stato capoclasse e rappresentante di istituto, e così ho deciso di accettare la proposta che ho letto su un manifesto di un’associazione studentesca: «Vuoi candidarti negli organi del Politecnico?». L’ho fatto un po’ anche per mettere alla prova la società in cui stavo vivendo, se cioè sarei stato accettato come candidato e se poi sarei stato accettato da parte degli studenti... In quella associazione apartitica mi hanno accettato per due organi e sono stato eletto per due anni poi prorogati a tre, in cui ho cercato di fare onore alla fiducia che mi era stata concessa. Ho cercato di risolvere tutti i problemi che mi venivano segnalati (iscrizioni, more, esami non dati, lamentele, ecc.), abbiamo creato una mailing list per tenere aggiornati tutti sulle riunioni e sulle decisioni, abbiamo fatto tante battaglie per la difesa dei diritti degli studenti. Alla fine è arrivata la proposta del Consiglio Nazionale Studenti Universitari... e anche questa volta è andata bene!

Ti ricordi come hai vissuto l’11 settembre?

Allora non avevo la tv, ero al telefono e ho sentito che in America era successo qualcosa. Ho chiamato gli amici che abitavano vicino, sono andato da loro e ho visto la scena degli aerei che colpivano le Torri e ho detto: è Bin Laden, mentre loro non avevano mai sentito parlare di lui. La cosa spiacevole è che quel giorno invece di aprire gli occhi sul pericolo del fondamentalismo, caldeggiato anche dallo stesso Occidente, si è creato un clima di islamofobia diffuso. Poi sono arrivati le trasmissioni di Radio Padania (è stata la prima radio che ho ascoltato in Italia e mi ha fatto un po’ di paura) e i libri della Fallaci, che hanno rafforzato questa tensione che non giova a nessuno, in fin dei conti. Per fortuna la nuova generazione ragiona in maniera diversa: le persone quando conoscono chi hanno di fronte ti valutano per quello che sei. Il pericolo, però, è che questa martellante propaganda convinca le persone che bisogna giudicare partendo dall’aspetto, dal nome, dal documento di identità.

Forse l’atteggiamento di diffidenza verso lo straniero è indipendente dall’11 settembre...

Sì, però adesso si sta focalizzando sulle persone di religione musulmana: si è individuata un’etnia o religione come il nemico. Se da una parte questo è funzionale alla politica, su un piano sociale è molto pericoloso: le mentalità sono diverse e la cosa può spingere sull’orlo di una guerra globale.

Il bilancio di questi quattro anni in Italia?

Positivo, anche se ci sono tante cose che bisogna comunque cambiare. Questo spetta ovviamente ai cittadini italiani, ma quando le leggi vengono applicate io mi ritengo legittimato a esprimere un’opinione. Perché c’è la tendenza a dire lo straniero non deve sputare nel piatto dove mangia. Qui nessuno mangia in nessun piatto: gli immigrati che lavorano e pagano le tasse contribuiscono alla crescita economica del paese e sono parte integrante della società; quindi sulle leggi che li riguardano possono esprimere le loro opinioni che devono essere prese in considerazione. Meglio sentire i pareri di esponenti veri di queste comunità che pensano a cose molto più pratiche di prediche più o meno religiose che si fanno a Porta a porta... Si dovrebbe fare una campagna di sensibilizzazione per spiegare che il futuro, piaccia o non piaccia, è multietnico e ci si deve abituare a quest’idea, senza lasciarci prendere dall’onda emotiva mediatizzata.

Dal punto di vista religioso tu come ti definisci?

Mi ritengo un musulmano laico, penso che la religione sia una cosa da vivere nella sfera del privato, e quindi non deve né essere chiesta né discussa se non in un ambito di civile dialogo. Non frequento la comunità, perché non c’è proprio un luogo di ritrovo degli egiziani. Credo – come Gandhi – che in ogni religione c’è un nucleo di verità, e mi sembra dal confronto dalle tre religioni monoteiste che il nucleo sia uguale. Ovvero il comportamento richiesto all’uomo nei confronti di Dio è sempre lo stesso. Quindi neanche le etichette che ci diamo hanno un senso. Poi ognuno fa il suo percorso, le sue letture e sceglie il percorso spirituale che ritiene adeguato per sé.

Scusa la domanda un po’ diretta: come vivi?

Ho una borsa di studio di una fondazione privata, poi c’è anche il contributo dei miei. Purtroppo è difficile lavorare e studiare, specialmente al Politecnico, quindi spero di laurearmi presto e di trovare un lavoro... Non so se qui o da qualche altra parte, ma mi piacerebbe restare in Italia, perché dopo esser vissuto qui da giovane tornare sarebbe un secondo sradicamento: ho fatto gli studi e tutte le amicizie qui, praticamente ho costruito una vita. Naturalmente tutto dipende da come va la vita, e la legge...

a cura di Antonello Ronca

 
 
[ Indice] [ Archivio] [ Pagina principale ]