POESIA |
I bambini di Beslan |
Salvaci, Dio dai molti nomi, dalla vendetta.
Finché ci sono ancora bimbi vivi, rimanga viva la parola «insieme». Nessuno di noi è eroe da solo. Ma dinanzi alla nuda verità tutti siam nudi. Io sto insieme ai bambini bruciati. Sono anch’io uno di loro, uno della scuola di Beslan.
Eugenij Evtushenko Ivan Tre rose bianche colse la mamma, quel mattino, perché le portassi alla maestra. E con le sue cesoie tagliò tutte le spine perché non mi facessero del male. Venne a scuola con me, ridendo, bella, col grande scialle bianco. Non provai paura, finché mi fu vicina. «Tranquillo... Ora finisce tutto...», mi diceva. «Ho tanta sete, mamma...» Strappò un bottone dalla sua camicia: «Succhialo forte... La sete passerà...». Aspettai, stretto vicino a lei, le braccia in croce. Quando ci fu lo scoppio mamma mi buttò a terra, le braccia aperte come ali, e buttò a terra anche Irina, la mia amica. Ci coprì col suo corpo, le mani sulle orecchie perché il rumore non mi spaventasse. Sentii il suo odor di mamma, la naftalina dello scialle. Ma poi il mio collo, le spalle eran bagnate e la mamma taceva. Io chiusi gli occhi, e gridai forte. Sto gridando anche adesso, nel silenzio. Sonia Ero felice di tornare a scuola perché Sergjei... lo avrei rivisto. Mi pettinai con la pinzetta rosa, a forma di farfalla, e misi il fazzoletto giallo al collo. Cercai Sergjei con gli occhi, ma non c’era. Per questo non capii cosa accadeva. Mi spinsero in cucina. C’era Olga con me. Urlavano e sparavano, e i bambini piangevano. Io e Olga ci abbracciammo: sentii il suo cuore battere impazzito insieme al mio. Fui coraggiosa. Dissi: «Siamo in tanti... non aver paura». Ma vennero da noi. Ci spinsero nel bagno, con i mitra. Gridai. Mi cacciarono in gola la canna del fucile, fino in fondo. Vomitai. Con un calcio, mi buttarono a terra, le sottane sul viso, a cancellarmi. Mi presero, in tre, in quattro, in cento. Non respiravo. Ogni volta, mille volte morii. Quando ebbero finito, nel buio dell’orrore, brillò una lama ingenua di sollievo, ma udii Olga ululare pazzamente, e una raffica tagliò il mio ventre in due. Sul pavimento, una pinzetta rosa. Fu sbriciolata dal passo di un anfibio. Otar Io sono Otar, il ragazzino talpa. Ero solo, quel giorno. Mamma era andata a casa, dagli altri fratellini. Quando ho visto quegli uomini cattivi, che urlavano sparando, tutti neri, sono corso più svelto che potevo, primo davanti a tutti. Sono piccolo io, ma sono svelto. Papà mi chiama «topolino». E come un topolino ho visto un buco nell’angolo del muro, e lì mi sono rintanato, zitto. Era stretto, là sotto, e buio nero, e puzzava di muffa e di erba secca. Ma chiusi gli occhi e stetti fermo fermo. Per non piangere pensavo a tutto il bello che c’è fuori: alla mamma e ai fratelli, ai giochi di prestigio di mio padre, a quando mi tuffavo nel ruscello, e alla torta di mele, e al mio fischietto... Son rimasto tre giorni dentro al buco. Sudavo, e avevo fame, e sete. Puzzavo di pipì, come un bambino piccolo. Piangevo di paura. Ma non volli uscir fuori. Solo quando ci fu quel gran silenzio, dopo gli scoppi, e gli urli e le preghiere, tirai la testa fuori dalla tana. Un soldato mi ha visto, mi ha sorriso con tanti denti bianchi, mi ha abbracciato, mi ha dato l’acqua. Fuori c’era mia madre, che piangeva. Alana Già lo sapevo, mamma, che preferivi lui. Lui è un maschietto, è biondo, è piccolino. Io son femmina, magra, e ho già sei anni. Ma lo accettavo, purché tu mi amassi Lo coccolavo, il fratellino, gli davo i miei pastelli per giocare, gli allacciavo le scarpe. Purché tu mi amassi... Ma quando ti hanno urlato «Fuori, cagna!» pungolandoti il petto col fucile, e ti hanno detto che uno solo di noi portassi in salvo, uno e uno solo, e io piangevo: «Non lasciarmi, mamma...», e tu, con gli occhi persi, hai preso in braccio lui, qualcosa si è spezzato nel mio cuore. Scappasti via, inciampando, stringendo lui sul petto. Solamente una volta ti voltasti, e il tuo viso, così giovane e dolce quando ridi, sembrava quello di una pazza, con i capelli sfatti, gli occhi bianchi e il labbro che pendeva. Lui mi faceva «ciao» con le manine. Sparisti fuori della porta. «Torna indietro – pregavo – torna indietro!». Invece no, non ritornasti. Venne vicino a me un ragazzo grande. Mi prese per la mano. Per tutto il tempo mi rimase accanto. Mi lasciò bere un po’ di succo della sua lattina. Fece un cuscino con la sua maglietta. Parlò a lungo con me, non so di cosa. Non gli lasciai la mano, per tre giorni. Quando esplosero bombe e calcinacci, non mi volevo alzare. Ma lui mi trascinò con sé, correndo forte. Là fuori, nel cortile, cercai mio padre, oppure nonna Irina. Invece c’eri tu. Ti eri disfatta, mamma, in quei tre giorni, le guance smunte, gli occhi... due buchi nella faccia, e ciocche bianche tra i capelli neri. Non c’era mio fratello insieme a te. Quando mi hai visto, ti sei inginocchiata, le braccia aperte, larga la bocca, come una ferita. Così ho capito che mi ami, mamma. Per quei capelli bianchi, per l’urlo senza voce, per gli occhi disperati su di me. Ti sono corsa in braccio, mamma mia, unica mamma, mamma che mi ama. Lev e Zambulat Inutilmente ci cercate, cari. Non è rimasto niente di noi due. Stavamo insieme, Zambulat e io. Quelli urlavano, con il mitra in mano. «Le mani alzate! Vi uccidiamo tutti!...» E ammazzarono Andrei, perché piangeva, e l’Ivanovna, che copriva il figlio, e il padre del mio amico, che calmava le donne. Per il terrore ci pisciammo addosso. Ci vergognammo, allora. Cosa fare? C’era una donna col vestito nero, velata fino agli occhi, vicino alla sua amica. Son più buone, le donne. Son come mamme, quando c’è un bambino. «Se stiamo accanto a lei, ci salveremo...». Quando tutto scoppiò, si squarciò il tetto, e la gente correva, come pazza, la donna in nero si rivolse a noi. Ci strinse forte a sé, in un gesto amico. Noi l’abbracciammo. Ci tenne stretti, come se ci amasse, Poi strappò qualche cosa, alla cintura, e sparimmo con lei, in un lampo bianco, troppo veloce, per aver dolore. Inutilmente ci cercate, cari: di me è rimasta solo più una scarpa, di Zambulat la medaglia che vinse nella corsa. La donna kamikaze Sono la donna nera, la donna senza volto, la donna non più donna. Sono la donna strega che ha sul ventre la morte, che divora i bambini, che non prova pietà. Ma di cosa parlate? Che ne sapete, voi? Nella scuola di Beslan c’erano due bambini, seduti accanto a me. Avevano l’età dei miei gemelli, la stessa età di Antòn quando bruciò. Bruciò il mio bimbo dai capelli neri, il figlio mio più dolce, il figlio mio più bello. Bruciò nella casa, nel villaggio bruciato, urlando «Mamma, aiuto...» e io sentivo... Ero a far legna, quando vennero e bruciarono il paese. Ero lontana, con l’ascia, come un uomo. Poiché il mio uomo era già stato ucciso, tormentato e fatto a pezzi. Vidi le fiamme e sentii gli urli e come pazza corsi verso casa, senza arrivare mai... Quando arrivai, Antòn il dolce non gridava più. E davanti alla porta, bianco nel sangue rosso, con la gola tagliata, stava il gemello suo, Jan Zabulòn, il gemello più forte e più gagliardo, e mia madre pendeva dal balcone, come un tappeto sopra la ringhiera. Nella scuola di Beslan stavano zitti e buoni i due bambini. Cercavano i miei occhi, ma non ebbi pietà: quando arrivò la fine, in nome del mio Antòn, in nome di Jan Zabulòn, li strinsi a me, come fossero i miei figli, poi tolsi la sicura sul mio ventre e gridando li partorii alla morte, figli della vendetta, del lutto, del dolore. Anna Maria Bermond |