INTERVENTI |
Messori e la misteriosa Torino |
Non capisco perché mai Vittorio Messori manifesti astio verso la Chiesa di Torino. Quella, beninteso, dei tempi di Pellegrino e Ballestrero. Per Ballestrero l’astio è legato al solo episodio della Sindone, che egli lasciò sottoporre all’analisi del carbonio, accettandone la datazione medioevale. E anche così il cardinale genovese viene giustificato, sulla base della spiritualità carmelitana, poco favorevole al «meraviglioso». Pellegrino invece mai si salva dall’accusa di aver «coltivato illusioni». Contro di lui del resto Messori aveva già manifestato antipatia nell’articolo sul «Corriere della sera» in cui scriveva l’elogio di Gianni Agnelli, a pochi giorni dalla morte (cfr. il foglio 200). Messori, si è convertito alla fede nel 1964. A Torino ha studiato, anche al d’Azeglio, sezione A, e ha cominciato a lavorare. È arrivato alla Sei, poi a «La stampa sera» e a «Tuttolibri», dopo un rapido passaggio a «La Gazzetta del Popolo». Il lavoro come cronista fu forse un po’ umiliante per lui che stava scrivendo Ipotesi su Gesù, opera che lo avrebbe reso ricco e famoso, con più di un milione di copie vendute. Messori girò tutta l’Italia, e viaggiò all’estero, invitato dai vescovi che invitavano anche Zichichi, e da tanti altri: presidi di scuole, direttori di oratori, centri culturali. Poté così diventare giornalista di prestigiose testate cattoliche, come «Jesus», e poi ancora entrare ne «Il Corriere della Sera» e fare due interviste, una al cardinale Ratzinger e una perfino al Papa. Aveva intanto abbandonata Torino. Una caricatura di Pellegrino Ora con Aldo Cazzullo, Messori ha dato alle stampe un altro libro, edito da Mondadori, che ha come titolo Il mistero di Torino. Due ipotesi su una Capitale incompresa. In quasi cinquecento pagine, gli autori, a ruota libera, scrivono su questa città. Ma capitale di che? Molti risponderebbero: «dell’automobile». Forse, se è così, non si tratta di una capitale, ma di qualcosa d’altro. E poi: perché incompresa? Non mi pare che lo scritto dei due dia una risposta. Mi soffermo su quelle pagine in cui si scrive dell’episcopato di Michele Pellegrino. Dall’Indice dei nomi si evince che di Pellegrino si parla almeno cinque volte. La quinta ad opera di Cazzullo, là dove scrive che Eugenio Corsini è stato il successore di Pellegrino nella cattedra di Letteratura cristiana antica e ne approfitta per attaccare pretestuosamente la sua opera principale Apocalisse prima e dopo. Di Pellegrino si parla dunque alle pp. 87 e 88 per stigmatizzare la sua decisione nei confronti dei pellegrinaggi Fiat a Lourdes. Paolo VI, su suggerimento del vescovo Franco Costa (lo diceva quest’ultimo), nominò Pellegrino vescovo di Torino, proprio per superare l’empasse di una diocesi legata mani e piedi alla grande industria. I cappellani di fabbrica furono sostituiti e non tutti, in Piemonte. Alcuni si trasformarono in preti al lavoro. Il collegamento col mondo operaio restò, più vero. Cappellani ce ne vogliono per i luoghi patologici, caserme, prigioni, ospedali. Il mondo del lavoro non è realtà patologica, come non lo è la realtà della scuola. In Italia non esistono cappellani per le scuole elementari e medie. I docenti di religione sono altra cosa. Pellegrino, da parte sua, non volle mai una Cappella universitaria. Lui pensava, e a ragione, che i docenti e gli studenti cattolici celebrassero nelle loro parrocchie territoriali, dove avrebbero partecipato attivamente alla pastorale, insegnando e studiando. Del resto il documento Evangelizzazione e lavoratori (1973) spiega il perché si passò dai cappellani alla presenza di preti al lavoro, ed è un documento dell’intero episcopato piemontese. A p. 110 del libro si parla del non amato arcivescovo per ricordare che Diego Novelli, sindaco comunista della città, era «ammiratore tetragono del cardinale Michele Pellegrino». A p. 212 per dire che a Pellegrino succedette Ballestrero. A p. 264 per ricordare che al Seminario di Rivoli i seminaristi accoglievano il cardinale, in visita, gridando il nome di Mao Tse-Tung. Tutte le pagine del libro, non solo queste, scorrono senza una citazione. Ne deriva disgusto, perché si è costretti ad arrendersi di fronte alla protervia di chi scrive senza mai offrire una pezza d’appoggio. È lo stile del giornalista. Pellegrino è preso in considerazione più ampiamente alle pp. 287-93. Messori inizia affermando di aver vissuto «gli anni pellegriniani...piuttosto distrattamente». Io l’ho conosciuto nei primissimi anni ’70. Frequentava, vivace, con sua moglie, «Il Punto Familia» di Suor Germana e padre Giordano Muraro, o.p. Aveva trent’anni. Non sembrava distratto rispetto alla vita della sua chiesa. Né credo soffrisse per non essere, in essa, al centro dell’attenzione. Di Pellegrino, che dall’inizio alla fine scusa su tutto, facendolo però passare come uno strumento in mani comuniste anche se uomo di integrità di vita, di fede, di buona volontà e di rette intenzioni, non salva nulla. In fondo era solo un professore d’Università tutto immerso nei suoi studi patristici, così lontani dall’oggi. Le pagine di Messori sul cardinale Pellegrino sono una interpretazione molto colorata dei fatti. Il che è dovuto, forse, all’ideologia del nostro, o forse ad altro. Il fiume clerico-fascista è oggi, si sa, impetuoso. Bisogna saperci navigare. Non voglio fare un commentario di queste pagine, dove si susseguono, ad ovvietà, giudizi taglienti seppur generici. E, mi ripeto, mai documentati e senza fare lo sforzo di capire. Libro superficiale, dunque. Può darsi abbia successo. Del resto, «roba scadente, piace alla gente». La Camminare insieme Mi soffermo sulle poche righe dedicate alla lettera pastorale Camminare insieme. Nel libro, alle pp. 291-92 viene presentata come uno testo in cui oggi «ciò che allora sembrava più aperto... è coperto dalla polvere di una sorta di archeologia pastorale». Questo dopo averla recentemente ripresa in mano. Lo ha fatto, penso, anche qui con astio. Cosa che non si addice a chi vuole in qualche modo fare opera di storico. Ma, è vero, Messori è un giornalista e ammira i potenti. Se si legge la lettera con attenzione, ancora oggi dice molto. Devo qualcosa, in questo, a Messori. Ho riletto anche io Camminare insieme. E l’ho trovata ancora fresca, geniale. Si leggano, ad esempio, i nn. 9-12, sulla povertà. Nel numero 12 è scritto che spesso la proprietà diventa titolo per comandare. Eccome è attuale, col governo che ci troviamo. C’è poi un aspetto nella lettera pastorale, aspetto mai più raggiunto da nessuno in Italia e di costante attualità, che sta nelle modalità, neppure accennate da Messori, della costruzione del testo, nato da un’ampia consultazione della diocesi. Il che corrisponde alla realtà della Chiesa mistero di comunione (Vaticano II). In Consiglio Pastorale non c’erano solo cristiani progressisti. C’erano preti e laici tradizionalisti, come l’anziano canonico Peyron, fratello dell’ex sindaco Dc e il giovane don Michiardi, scelto poi da Saldarini come ausiliare e oggi vescovo di Acqui. Così negli altri Consigli, presbiterale e dei religiosi, e tra i vicari di zona. I Gruppi che lavorarono sul «documento base», proposto da Carlevaris, prete operaio, erano altrettanto variegati. Padre Pellegrino tenne conto delle posizioni di maggioranza e minoranza, assumendo non solo il testo votato dai più, ma tutto il materiale che gli era arrivato dall’incontro di tutti gli organismi consultivi a Sant’Ignazio e dall’incontro torinese dei primi di novembre. Su questo materiale il vescovo lavorò più di un mese, per poi pubblicare la Lettera l’8 dicembre. Si ebbe il testo stampato ai primi di gennaio 1972 e tanti parlarono e scrissero della Lettera. Poiché Pellegrino era presidente, ad Oxford, della Società di patrologia, ne disse anche la Bbc, in una sua trasmissione. Si era arrivati così ad una lettera pastorale in cui, tra l’altro, c’era la scelta preferenziale dei poveri, ma l’impegno evangelizzatore verso tutti (n. 14). I due autori presentano Torino, sia nell’ambito descritto, sia nell’insieme, in maniera carente, parziale, approssimativa, come l’autobiografia, contenuta nel secondo capitolo. Per esemplificare, Messori non conosce, tra gli architetti, la presenza così incisiva, di Roberto Gabetti e Aymaro Oreglia d’Isola, e neppure quella di Mario Federico Roggero, per tanti anni preside della Facoltà di Architettura. Forse perché gestì bene il ’68. Tra i filosofi ignora Vattimo. Cita Alessandro Passerin d’Entrèves, ma tace su Ettore. Non ricorda Italo Lana, ordinario di letteratura latina. Ignora l’esistenza di don Alberto Prunas Tola. Tanto più quella di Leletta Oreglia d’Isola con la sua bella lezione spirituale. Sorvola su padre Ceslao Pera del Convento di San Domenico di Torino. Forse perché Pera fu un cattolico comunista. Ma di Felice Balbo, invece, scrive, e afferma che fu uno dei teorici del cattocomunismo. No. Fu, con Rodano ed altri, un cattolico comunista, che è realtà ben diversa. Cattocomunista per dispregio fu denominata gente come me. In definitiva. Una storia mal fatta. Come spesso quelle scritte da giornalisti. Ma c’è di peggio. Una storia che stravolge la dignità di Torino, che non può che essere capitale incompresa se ha cantori come Vittorio Messori. fra Giacomo Grasso, o.p. I laici di Torino Anche io sono convinto, per tanto ascolto prossimo del suo pensiero e dei moventi profondi del suo spirito e della sua azione, che le scelte pastorali e morali di Pellegrino erano dettate da amore per la giustizia e per gli ultimi, evangelicamente ispirato, senza alcuna dipendenza da ideologie o gruppi di potere di alcun genere, né comunista né democristiano né economico. Ma è tutta la città nelle sue figure emergenti che il libro guarda un po’ dall’alto in basso, pur dicendo di amare Torino: Pellegrino appunto, ma anche Gobetti, Gramsci, Bobbio, Galante Garrone, Pavese, Firpo, fino a Novelli e altri. Se non mi è sfuggito qualcosa, c’è invece un silenzio riguardoso verso i santoni della Fiat. Di ciascuno di quei torinesi, il libro si compiace di tirar fuori qualche scheletrino dall’armadio. Questi poveretti non sono cattolici come Messori, sono azionisti (del Partito d’Azione) e di sinistra!... In particolare su Bobbio, gli si nega ogni sensibilità religiosa. L’ho conosciuto bene, sotto questo aspetto, non solo per le cose che ha pubblicato, ma per conversazioni e lettere personali. Aveva del cristianesimo una conoscenza da catechismo infantile, lo diceva lui stesso. Ma certo, almeno negli ultimi tempi, si poneva interrogativi veramente “religiosi”, senza una risposta di fede: ma interrogarsi è più importante che rispondere. Interrogativi centrali e non secondari: ricordo bene con quanto sano scetticismo mi parlò del libro di Messori su un miracolo clamoroso: «in Spagna, e nel Seicento!...», diceva. Soprattutto, però, si poneva il problema del male, il problema (non personale) di Giobbe, la massima difficoltà a credere in Dio. Io penso che chi affronta una difficoltà, comunque risponda per il momento, desidera e cerca di superarla. e. p. |