CINEMA
Nemmeno il destino


Difficile valutare il secondo film di Daniele Gaglianone Nemmeno il destino (dal romanzo di Gianfranco Bettin, ora in seconda edizione modificata, Feltrinelli). Fino ad un certo punto della visione mi irritava: pareva girare monotono attorno a questi ragazzi squinternati, che non sanno neppure accettare i sentimenti di una ragazza. Sembrava scavare col coltello nella piaga, fin oltre il necessario. Ma andava emergendo una pietà, una tenerezza triste per i loro dolori tenuti (quasi) a bada per mezzo delle ripetute pazzie.

Poi appare sempre più presente il volto tristissimo – sembra costruito da uno scultore per questo personaggio – della madre di Ale, e via via il suo corpo usato e tutta la pesante storia di questa donna, che la schiaccia. Per non dire della maschera disfatta del padre di Ferdi, un operaio fatto vittima della ristrutturazione industriale, personaggio che scompare dalla storia, annullato. Mali privati e mali pubblici, dunque, causa di altri mali. Simili immagini di volti sono le parole pittoriche, eloquenti, di questo racconto, e dunque questo è vero buon cinema.

La scomparsa di persone, che cadono fuori dal film narrante come dalla storia narrata, è resa con una trovata tecnica nelle immagini stesse del film, dissolte in un istante. Il terzo ragazzo, Toni, parte, non si sa per dove: è il suo modo di scomparire. Persone che scompaiono dalla storia ma ricompaiono nella memoria, luogo di cose dolorose e di cose preziose.

C’è una scena tragica che allude ad un fatto reale avvenuto pochi anni fa a Torino, ad un passo da Piazza Castello: un disperato stava per lanciarsi da una gru; una piccola folla di incoscienti lo incitava a gettarsi, come quello fece. Anche questo dettaglio che potrebbe sfuggire, ambienta la storia a Torino.

Torino non è usata, come fa solitamente il cinema, nelle cartoline di monumenti e vie note, ma compare nelle periferie senza volto né forma, nelle caotiche strade esterne, e in fabbriche immense ridotte a scheletri di cemento e di pioggia. Ma c’è una piazzetta importante per la tradizione popolare: è in borgo san Paolo, davanti alla chiesa di san Bernardino, vicino alla casa del martirio di Dante Di Nanni, partigiano ventenne. E un personaggio ha il volto di Silurino, in I nostri anni. La città sembra trovare respiro solo fuori, quando si evade andando al piccolo fiume o alla montagna spaziosa, sorridente nel suo pacifico azzurro lago. La storia non è disperata. Persino la madre distrutta, insieme ai vecchi buoni, desolati e sfrattati, ricostruiscono un quadro di vita per Ale. Il suo volto, davanti al lago, passa dalla disperazione al sorriso, grazie ai ricordi, seppure drammatici. Il passato interiorizzato è vita che aiuta il presente e il futuro. Ale proteggerà la madre che lo protesse invano da piccolo, nel coltivare qualche fiore fragile, ma bello.

Le ultime immagini non hanno più i colori, forse perché ristrette sulle poche linee portanti della vita, forse perché affidate all’incerto confine tra presente e futuro.

E.P.



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