FOLLIA E SPERANZA |
Siamo matti «noi» o «loro»? |
Troppo spesso, nei dibattiti pubblici e altrove, i discorsi finiscono quando dovrebbero iniziare: raggiunto il punto centrale si scopre che il tempo è scaduto e si passa ad altro. Qualche giorno fa una brillante conferenza di Mario Tozzi (conduttore della trasmissione televisiva «Gaia») nel salone della Provincia dipingeva uno scenario a dir poco inquietante del presente e del futuro dell’umanità, lanciata in una corsa allo sviluppo che si rivela sempre di più una corsa verso la catastrofe, insieme ecologica ed antropologica. Alla fine della discussione un intervento – non c’era tempo per rispondere, visto che il conferenziere stava già salutando – poneva un po’ brutalmente la domanda a mio modo di vedere essenziale: in conclusione, siamo matti «noi» o «loro»? «Noi» che prendiamo parte ai dibattiti e ci facciamo in qualche modo, magari molto modesto, carico dei problemi dell’ambiente che sono anche quelli del futuro dell’umanità, c’interroghiamo sul principio di precauzione e sullo sviluppo sostenibile, sulla possibilità-necessità di trovare modelli di sviluppo alternativo, oppure «loro», il resto del mondo che sembra continuare ad andare più che mai nella direzione della catastrofe? Certo, l’alternativa tra la pazzia «nostra» e «loro» era mal posta, e la domanda stessa nell’ultima parte suggeriva una linea di correzione: la realtà è che tutti noi siamo in parte saggi e in parte pazzi, s’intende in misura variabile; l’ecologista virtuoso e il consumista coatto o l’inquinatore assatanato di profitto sono in qualche modo presenti e mescolati in ciascuno di noi, proprio come lo sono il bene e il male. Noi stessi che parliamo di responsabilità ecologica e di sviluppo sostenibile siamo poi spesso ben lontani dall’essere coerenti in tutte le nostre scelte. E non è solo colpa nostra: al di là della buona volontà individuale, se la società funziona in un certo modo noi non siamo affatto liberi di «chiamarci fuori», proprio come non siamo liberi di scendere dal treno in corsa. Tutte le nostre attività sociali, anche le più «pulite» hanno un rapporto, spesso di complicità anche nell’opposizione, con la «megamacchina » all’interno della quale lavoriamo e viviamo. Questo si comprende bene: quello che si comprende meno bene è come mai non sfruttiamo il margine più o meno ridotto di libertà che comunque ci rimane. Tipicamente, quando tutti buttano le cartacce per terra pensiamo, in modo fra il rassegnato e il cinico «tanto che differenza fa, se io solo mi comporto bene?». Se la considerazione strutturale sul funzionamento della «megamacchina» rimane in ogni caso fondamentale, non meno importante è esaminare l’altro lato, quello dei comportamenti e delle scelte individuali. Il meno che si possa dire a questo riguardo è che siamo tutti più o meno schizofrenici, nel senso che ci comportiamo come se volta per volta ragionassimo ed agissimo con una parte soltanto del cervello, all’insaputa dell’altra parte. È severamente vietato darsi martellate sulle dita Quindi, ancora una volta il problema non è quello della follia «nostra» o «loro», ma quello della follia umana in generale; in particolare di quella follia pericolosa per cui sembra che spesso facciamo il nostro male pur sapendo di farlo. Si chiedeva Socrate: è possibile «peccare» (amartanein) volontariamente? La risposta di Socrate era negativa: se l’uomo pecca fa il male, lo fa per ignoranza; perché fare il male è sempre fare il proprio male. In una prospettiva etica decisamente «alta» egli sosteneva che, facendo un torto al mio prossimo, in fondo lo faccio a me stesso. Per il momento tuttavia non volevo sollevarmi a queste altezze, ma più modestamente esplorare quella dimensione di ordinaria follia per la quale facciamo spesso quello che molto ovviamente e direttamente è il nostro male (e non quello del prossimo), pur essendone più o meno chiaramente consapevoli; siamo cioè attivamente impegnati a darci martellate sulle dita. Ad esempio: una persona che ha una paura folle della morte e della malattia fuma quaranta sigarette al giorno pur sapendo che probabilmente questo avrà gravi conseguenze sulla sua salute (ultimamente c’è anche scritto sui pacchetti, ma fatta la legge trovato l’inganno: si usa un’apposita mascherina per nascondere la scritta minacciosa). Oppure beve smoderatamente, oppure guida in modo imprudente, per non parlare del drogarsi o di altri comportamenti a rischio. La prova del nove: che ci sia bisogno di severe sanzioni per convincere la gente a mettere le cinture per l’auto, il che significa per esercitare la normale autoconservazione fisica (della serie: «è severamente vietato darsi martellate sulle dita»). A questo discorso si può obiettare che mentre darsi martellate sulle dita non ha nessun aspetto particolarmente piacevole, le sigarette, il bere e altri comportamenti a rischio hanno certamente per molti se non per tutti un aspetto piacevole, anche se sappiamo più o meno confusamente che «dopo» la dovremo «forse» pagare, proprio come il bambino che si ingozza di dolci che gli hanno già causato una indigestione. Qui vanno sottolineate e spiegate le parole «dopo» e «forse»: anzitutto la cosa si sposta nel futuro, poi si tratta di un futuro soltanto eventuale e non del tutto certo. Vediamo i due lati di questa eventualità. Da un lato non mancano fumatori incalliti (per quanto magari in numero ridotto) che raggiungono la tarda età; dall’altro anche il virtuoso salutista può in qualunque momento cadere vittima di un qualunque accidente o incidente, nel qual caso, argomenta il vizioso, la sua virtù non gli sarà servita a niente. Tenendo conto dell’incertezza generale della vita, quindi, il vizio non significa necessariamente condanna, come il comportamento virtuoso non significa necessariamente salvezza. Meglio un giorno da leone che cento da pecora Di più, il vizioso può aggiungere (argomento tutt’altro che da buttare via) che alla fine, sani o non sani, siamo tutti destinati a morire, e che in fondo il morire qualche anno prima o dopo non fa poi quell’enorme differenza, e che vivere in modo soddisfacente e intenso è ancora più importante che vivere a lungo. A nostra volta potremmo obiettargli che una vita che si sostiene a sigarette e cognac, non deve poi avere una grande qualità: una felicità ottenuta chimicamente non ha lo stesso valore di una felicità costruita attraverso sagge scelte esistenziali. Comunque, in fin dei conti, gli argomenti del vizioso hanno un fondo sia pur limitato di validità: senza arrivare al famigerato «meglio un giorno da leone che cento da pecora», saremo perlomeno indotti ad aderire alla tesi di Erasmo, autore dell’immortale Elogio della follia, secondo il quale la follia (o la stoltezza, come talvolta si traduce) è appunto ciò che – s’intende in determinate proporzioni e con una determinata qualità – rende sopportabile la vita umana. Il nostro Leopardi ha descritto in modo indimenticabile il necessario aspetto di irrazionalità e illusione della vita umana; in modo ancor più inquietante, Dostojevskij e Nietzsche hanno sostenuto che nella volontà di contraddire e di trasgredire, persino in modo autolesionistico, c’è qualcosa di prezioso che ci difende contro i tentativi di inquadramento totale della vita umana (contro i totalitarismi del ventesimo secolo, cui bisognerebbe aggiungere l’attualmente regnante totalitarismo del «pensiero unico»). Per una nuova mitologia collettiva Ritorniamo alla nostra domanda di partenza: siamo matti «noi» o «loro»? Essa non sarebbe così urgente e inquietante se al nostro tempo non ne andasse della sopravvivenza dell’umanità. Fino a ieri l’uomo poteva esercitare più tranquillamente la propria follia-stupidità, nel senso che poteva fare del male a se stesso e ai propri simili, ma entro un raggio limitato, senza cambiare le basi naturali della propria esistenza. In passato, i nipoti aravano la terra resa fertile dalle follie belliche delle generazioni precedenti, mentre una guerra contemporanea può rendere permanentemente inabitabili intere regioni o addirittura il pianeta nel suo assieme. Non si potrà trovare un varco tra Scilla e Cariddi: tra il rassegnarci alla follia-stupidità come a un destino ineluttabile, e il buttarci dal treno in corsa, col probabile risultato di farci molto male? Non è possibile distinguere tra le nostre piccole follie (che spesso sono tutt’altro che innocue, ma che non possiamo evitare del tutto senza togliere sapore all’esistenza) e le grandi follie collettive che oggi, a differenza di quanto avveniva in passato, possono mettere in questione la stessa sopravvivenza dell’umanità? È urgente rifondare l’educazione del genere umano sulla base di una nuova tavola di valori (in realtà sempre gli stessi, ma radicalmente rivisti alla luce della nuova situazione) e di quella che non riesco a chiamare se non una nuova «mitologia» collettiva che delimiti seriamente certe pratiche come proibite; pratiche nelle quali non si può lasciare il normale spazio all’azione dell’individuo, perché l’azione dell’individuo (particolarmente quella del decisore, ma il decisore opera sulla base di un sentire comune) può mettere in questione l’esistenza della comunità. Quando non piove da mesi e tutto è secco, non si può lasciare che la gente vada in giro ad accendere fuochi nei boschi, perché il fuoco può devastare un’intera regione. Continueremo a farci del male a volontà con le nostre piccole e grandi follie quotidiane, ma è giusto che ci difendiamo collettivamente autolimitandoci contro le grandi follie che impedendoci di vivere, impedirebbero anche la continuazione di questa bislacca, per certi aspetti miserevole, ma anche per certi aspetti magnifica avventura che è l’esistenza umana. Alberto Bosi |