MEMORIA
Yasser Arafat

È segno di umanità rispettare il morto, sempre, anche quando è l’avversario, persino quando è un delinquente. La morte porta oltre la storia, nel mistero dove noi non vediamo, davanti al quale siamo tutti giudicati, e speriamo perdonati dalla clemenza di Dio.

In secondo luogo, se vogliamo tornare al terreno della storia, chi lotta lo fa come sa e può. Importante è soprattutto vedere per che cosa lotta: per la giustizia o per una sopraffazione? A volte non è facile distinguere, c’è dell’una e dell’altra. Ma il tempo è buon giudice. Nel caso, Arafat ha condotto i palestinesi, nel rivendicare i loro diritti, a riconoscere la presenza di Israele, accettazione per loro dolorosa, dato il modo dell’insediamento.

Bisogna poi vedere come è condotta la lotta: ideale è la lotta con la pura forza nonviolenta dell’unità dei popoli, senza dare la morte. Ma non tutti fino ad oggi ne sono stati capaci. La lotta armata, cioè col dare la morte, non è facilmente giustificabile. Tuttavia, anche Gandhi la preferisce alla passività di fronte alla sopraffazione, pur mostrando coi fatti che tutti i popoli hanno la capacità di lottare per la giustizia con la forza nonviolenta, la più pura, la più dignitosa, la più definitivamente efficace.

Anche i palestinesi hanno avuto leader – ricordo almeno Mubarak Awad – e metodi nonviolenti: la prima Intifada, ha fatto loro guadagnare la simpatia del mondo, molto più della seconda Intifada armata, e ha disturbato assai più di questa l’occupazione israeliana, denunciandola di fronte al mondo senza giustificazioni.

Se Arafat ha usato i metodi armati violenti – come altri in tante lotte di popolo, compresa quella di Israele – è poi passato sempre più chiaramente dalle armi alla politica, che è appunto l’uso della parola umana e della trattativa (condotta bene o male), invece delle armi.

Come indica Hannah Arendt in modo definitivamente chiaro, dove c’è politica e potere politico non c’è violenza, dove c’è violenza non c’è potere politico e vita politica. Perciò è ingiusto e odioso oggi definire semplicemente Arafat terrorista. Naturalmente sono discutibili i suoi metodi politici.

La politica che decide morte e guerra non è più politica umana né, tanto meno, democrazia, perché il diritto primario alla vita o è universale oppure non esiste davvero neppure all’interno di un sistema politico. La democrazia consiste nella libera discussione e nel principio elettorale, certo, ma ancora di più consiste nella forza dei diritti umani. Chi non li rispetta negli altri, negli avversari, non li rispetta per nulla e per nessuno. Per questa ragione, una democrazia che fa guerra non è più democrazia. Così, una democrazia che nasce dalla guerra, nasce mortalmente malata, priva del valore essenziale. Evidentemente, questo vale per Israele, per la Palestina, per gli Usa. Per tutti, più e meno potenti.

Enrico Peyretti

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È difficile ridurre tutta l’evoluzione della politica dell’Olp a due righe sulla opposizione tra metodi violenti e nonviolenti, bisogna almeno aggiungerne una terza sul «ritorno alle armi» dopo Camp David 2000, al terrorismo che ha alimentato il rigurgito della destra israeliana, cioè Sharon dopo Rabin e Barak, e la crisi della sinistra, che non aveva più e non poteva più additare un interlocutore pacifico.

Ma quello che ha colpito di più durante l’agonia di Arafat è stato il balletto intorno al suo «tesoro». Milioni o miliardi di dollari, non sappiamo né sapremo mai. Quello che sappiamo è che non erano bruscolini. Che ci fosse corruzione nell’Anp lo sapevamo tutti. Che ci fosse una situazione mafiosa, con tangenti sulle poche attività economiche in atto nei Territori, accaparramento dei fondi europei e dei petrodollari, anche. Ma ora abbiamo anche sentito le cifre, e possiamo ipotizzare che se Arafat si è fatto il tesoro, molti altri si sono fatti o vogliono farsi il tesoretto. Niente di male, naturalmente, se si trattasse di comuni mafiosi. Ma visto che si tratta di leader di una lotta di liberazione di un popolo affamato, ormai senza lavoro e costretto alla vita dei campi profughi, la cosa assume un’importanza e una gravità diverse.

Inoltre l’oscena vicenda di un cadavere tenuto artificialmente (o forse solo mediaticamente) vivo in attesa di definire i termini della successione ha dei precedenti nei soli casi di Franco, Tito, Breznev: non si può negare che questo sia un indizio di dittatura.

Gianfranco Accattino


 
 
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