LIBERE RIFLESSIONI SUL CRISTO IN CROCE / 1

Gesù si è ricreduto?


Le parole di Gesù sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», che riecheggiano il salmo 22 (21), sono sempre state un po’ inquietanti. Considerando la doppia versione sinottica, di Marco e Matteo, le parole riportate non corrispondono esattamente né all’ebraico né all’aramaico, ma costituiscono una specie di citazione mista ebraico-aramaica in entrambi i sinottici. La versione greca (i LXX) dell’inizio del salmo aggiunge un «prestami attenzione», seguito da un «a che scopo mi hai abbandonato?». Più interessante risulta invece l’apocrifo Vangelo di Pietro che suona: «Mia potenza, oh potenza, tu mi hai abbandonato». Il nome di Dio è sostituito con la «(mia) potenza», e la frase, anziché interrogativa, si presenta seccamente come affermativa (cfr R. Brown, La morte del Messia, Queriniana-Brescia 1999, Btc 108, pp. 175-92 e 1223-27).

Personalmente riteniamo che non si tratti di vero abbandono, perché esso consiste in genere nel non intervenire ad aiutare od alleviare una persona quando però si è in grado di farlo (omissione di soccorso), e la causa è perché non si vuole. Ma, partendo dalla nostra ipotesi/tesi che Dio non intervenga nel mondo a livello molecolare-energetico perché non può e non perché non vuole (non è in grado di farlo), quello del Padre nei confronti di Gesù non è vero abbandono. Ma allora in che senso la potenza (divino-paterna) lo ha abbandonato? La nostra libera interpretazione ci suggerisce che la potenza di Dio sia svanita, addirittura con valore retroattivo; formuliamo allora l’ipotesi che Gesù sulla croce (e più in generale nella Passione) sperimenti con angoscia e prenda coscienza che tale potenza non si dà più, anzi non si è mai data e mai si darà nel decorso storico del mondo. E rispetto alla sua stessa predicazione pre-pasquale in cui aveva effettivamente annunciato la venuta del regno con potenza, si accorge di... essersi sbagliato; credo che questa svolta radicale faccia parte sia dello sviluppo dell’epoca moderna (una presa di coscienza collettiva almeno dall’illuminismo in poi), sia della nostra biografia personale: noi stessi, per un buon periodo della nostra vita, abbiamo pensato a questo Dio ed a questo regno ultra-potente.

L’annuncio pre-pasquale

Gesù non si era curato di definire in che cosa consistesse il regno di Dio; era noto nell’ambiente, in quanto aveva alle spalle già una lunga storia, anche se l’espressione non ricorre materialmente nell’A.T. ebraico. (Per tutto questo paragrafo cfr. G. Barbaglio, Il regno di Dio e Gesù di Nazaret, in: Barbaglio, Bori, Dupont, Hale, Pesce, Conoscenza storica di Gesù, Paideia-Brescia 1978, pp. 103-119). Nell’area culturale dell’antico medio oriente il re non era soltanto una struttura politica ben definita, ma incarnava anche un ideale di giustizia per quelli che nella società non riuscivano ad ottenerla. La sua avrebbe dovuto essere propriamente una giustizia partigiana a favore dei poveri e degli oppressi, ed avversa agli sfruttatori e ai violenti. Ora, dato che l’esperienza monarchica in Israele era stata fallimentare in rapporto alle attese dei poveri, l’ideologia regale di giustizia e di pace ha avuto una trasposizione religiosa e insieme una proiezione escatologica. Il regno di Dio (o dei cieli) è quindi da intendere in senso dinamico: è l’evento di Dio che si fa re; e tale regalità divina significa la potenza di Dio in atto che rende giustizia agli offesi e libera i disumanizzati.

Gesù riprende tutto questo, lo annuncia o lo proclama inaugurato dalla sua presenza, testimonianza ed azione. Soprattutto nel suo discorso inaugurale, in particolare con le Beatitudini, si congratula e si felicita con persone che versano in situazioni pietose, perché il regno significa la liberazione dei poveri dalla loro ingiusta situazione sociale di diseredati ed oppressi, e più in generale il superamento del disagio dei piangenti e della miseria degli affamati (la beatitudine dei poveri, come ci ha insegnato J. Dupont, costituisce un blocco unitario con le due successive degli affamati e dei piangenti). Pertanto ogni interpretazione puramente spirituale fa torto al significato della beatitudine a livello di Gesù (il livello spirituale c’è in Matteo; ma Gesù, almeno in quel discorso, non ha avuto di mira una povertà spirituale come qualità soggettiva di merito e di valore morale; e d’altronde Luca sposta pericolosamente la liberazione/felicità dei poveri dopo la morte). Gesù però non è solo un araldo del regno, il proclamatore della lieta novella della prossima liberazione per gli indifesi, bensì un soggetto attivo, perché la sua presenza, la sua attività taumaturgica e sdemonizzatrice è mediatrice della venuta di Dio re nella storia umana, con un significato liberatorio per gli uomini fatti schiavi dalle potenze del male e della morte. Con Satana è ogni forma disumanizzante che viene messa in discussione e combattuta dalla venuta del regno, che Gesù ha fatto germinare con la sua azione salvifica e salutare.

Non ci sono più dubbi consistenti sul valore storico dell’attività taumaturgico-esorcistica di Gesù, tenendo ben presente che, data la concezione allora imperante della malattia come fatto demonistico, la distinzione tra guarigione ed esorcismo è quanto mai labile. Altra cosa è invece il giudizio storico sui cosiddetti miracoli della natura (ad es. tempesta sedata, camminare sulle acque, nozze di Cana, ecc.) e le resurrezioni (la figlia di Giairo, Lazzaro, e il figlio della vedova di Nain).

Regno di Dio con potenza?

Riassumendo sono due i punti critici, che a nostro parere vanno superati: 1) Il regno annunciato dal Gesù pre-pasquale sarebbe di Dio a tutti gli effetti. Si tratterebbe di lui, della sua signoria o potenza regale che si traduce in atto. Si potrebbe dire che è suo affare, la sua grande causa, addirittura la sua realizzazione come re. Il regno proviene da Dio anche perché si tratta della sua azione; è lui che agisce per diventare re. Non cede ad altri la traduzione operativa della sua regalità, anzi la riserva (direttamente) a se stesso. 2) Il regno è entrato nella storia attraverso l’azione di Gesù, la sua presenza operativa: Dio agisce come re mediante la persona e l’attività di Gesù.

Così interpreta una certa linea esegetica, aggiungendo tra l’altro che il regno di Dio predicato da Gesù è puramente religioso. Quest’ultimo aspetto è facilmente contestabile, perché il regno ha chiare implicazioni sociali (soprattutto per quanto concerne la giustizia). Questa linea inoltre rileva come il regno sia esclusivamente «seme e azione di Dio»; riferendosi appunto alla parabola del seme che cresce da se stesso, si precisa che l’uomo non può fare assolutamente nulla con le sue forze per provocarne o impedirne la manifestazione. Si insiste molto sul fatto che il regno è «impresa di Dio e riguarda la salvezza dell’uomo »; nessun dubbio sul fatto che riguardi la salvezza dell’uomo (compresa la sua felicità nel decorso storico), ma non è impresa di Dio nel senso usuale e tradizionale dei termini, perché Dio non può, non è in grado di intervenire materialmente nel mondo; non si dà quindi alcun controllo divino degli eventi. L’esegesi ha in parte ragione perché Gesù può benissimo essersi espresso così nei suoi discorsi in Galilea, ma proprio sulla croce si rende conto che le cose stanno diversamente; ciò significherebbe anche il fatto inquietante che certi passi del vangelo, alla luce della crocifissione, non hanno più lo stesso valore...

Noi sosteniamo allora esattamente il contrario: il regno di pace e di giustizia dipende quasi esclusivamente dall’agire dell’uomo, perché Dio è privo di potenza; è proprio questa che non si dà, non si dà più, anzi non c’è mai stata nella storia (checché ne dica l’A.T.), a parte la breve parentesi in Gesù. Ma anche per quel che riguarda la parentesi cristologica (il punto 2 già menzionato), ossia la mediazione storica della regalità divina in Gesù, pure questa è finita tragicamente sulla croce; quella relativa manifestazione di una certa forza del regno, che era avvenuta con le guarigioni dei malati/ossessi da parte di Gesù, finisce ingloriosamente sulla croce. E non si dà un altro mediatore né umano (apostoli e discepoli), né collettivo (le varie chiese), sia pur vagamente confrontabile con la forza prepasquale del Nazareno (l’incarnazione nel Gesù terreno è stata un’eccezione che non si ripete nella storia).

Interruzione scioccante

Non c’è continuità col passato, c’è interruzione; in Gesù stesso abbiamo una discontinuità rispetto a quello che credeva e pensava prima. Per Gesù la croce segna l’interruzione del Regno di Dio con potenza: l’angoscia del Getsemani e della passione consiste anche nella presa di coscienza dell’estrema vulnerabilità del Regno stesso. La potenza di Dio non si dà perché non ce l’ha, e non perché non ha voluto usarla decidendo di non intervenire; non si dà alcuna decisione di Dio in proposito. Questo è uno shock, sia relativamente al suo precedente annuncio in Galilea che riguardo a gran parte dell’A.T.: basti pensare all’immaginario collettivo delle piaghe d’Egitto, del passaggio del Mar Rosso o del crollo delle mura di Gerico. Ma l’interruzione riguarda tutta la Bibbia, dato che il Regno con potenza viene ripreso dai livelli successivi del Nuovo Testamento: postpasquali, redazionali di Mt e Lc, giovannei e paolini. In pratica, ad eccezione di Marco, l’hanno fatto un po’ tutti; la tradizione seguente, anche quella immediata, almeno a livello conscio non ha colto per nulla il depotenziamento retroattivo della forza divina. Ma l’inconscio ha sentito il colpo, facendo sì che venisse esorcizzata la paura della debolezza divina; infatti hanno tentato di recuperare la potenza celeste proprio nell’ambito stesso del racconto della Passione, ed in particolare hanno caricato in senso divinistico la scena della crocifissione col buio, il terremoto, ed in Matteo anche con l’uscita dei morti dai sepolcri. In Luca abbiamo la scena rassicurante del «buon ladrone» («Oggi sarai con me in paradiso »), oltre alla guarigione dell’orecchio del servo del sommo sacerdote (sintomatico che tutta la tradizione posteriore l’abbia intesa come un “riattacco” semi-magico dell’orecchio medesimo). Nel quarto Vangelo, quando Gesù all’inizio del suo arresto risponde «Sono io», tutti cadono per terra. Sono tutte scenografie che vogliono dire: sì, Gesù è morto perché doveva essere versato il sangue dell’espiazione e del riscatto (o comunque dovevano realizzarsi le Scritture), ma la potenza divina rimane intatta!

Mauro Pedrazzoli

(continua)

 
 
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