Editoriale |
Sicuramente, è un vero bene che un popolo possa votare. Non è bene dimenticare in quali limiti e condizioni hanno votato gli iracheni. In un paese occupato militarmente, governato dai delegati degli occupanti, sotto stretto controllo di questi, le elezioni non sono quella esperienza di libertà a cui inneggiano gli occupanti e i loro fiancheggiatori. Quante liste e candidati potevano proporre, tra i loro auspici almeno, visto che il loro compito era limitato alla stesura della Costituzione e all’indizione di nuove e più credibili elezioni politiche, il pronto ritiro degli americani e alleati? o rivendicare all’Iraq il petrolio dell’Iraq? O escludere basi americane in Iraq? o annullare le privatizzazioni a tappeto e l’invasione economica dell’Iraq subito compiuta dalle corporation statunitensi? L’assenza totale di osservatori indipendenti e la mancanza di contraddittorio tra i partecipanti non consente di accertare la veridicità percentuali dell’affluenza, che nelle prime ore erano date al 72%, come auspicato da Bush, benché una stima più realistica non le discostasse molto dal 50%. Rimane il fatto positivo che gli iracheni votanti sono stati comunque tanti, in quelle condizioni, e rimane la diversissima partecipazione di sciiti, curdi e sunniti. Problema gravissimo, che, insieme al bisogno di chiudere con la guerra e l’occupazione straniera, può aiutare a spiegare la ragione della corsa al voto delle ex-vittime di Saddam. Oltre e forse più che bisogno di democrazia, le elezioni hanno visto esprimersi il bisogno di porsi in prima fila nel momento dell’occupazione del potere e, per gli sciiti almeno, di avere più peso nella richiesta agli americani di andarsene al più presto. L’informazione più corriva parla di «vittoria di Bush», proprio come accadde il giorno della caduta della grande statua di Saddam. Quello che è seguito lo sappiamo ed è facile prevedere che la storia non cambi corso e che non siano cambiati gli umori degli iracheni. Chi ha vinto a queste elezioni lo si saprà quando si sapranno i risultati di scrutini, quanto mai a rischio di imbrogli. Ma soprattutto si saprà quando si riuniranno gli eletti e i vari gruppi politici ed etnici rappresentati cominceranno a dire le loro ragioni e a far sentire il loro peso. Chi ha vinto lo diranno gli iracheni. Bisognerà vedere se gli americani accetteranno la loro sentenza e se l’accetteranno i terroristi, per ora sicuramente sconfitti, che potrebbero, però, riprendere forza se gli occupanti non passeranno davvero la guida dell’Iraq ai suoi rappresentanti, se questi ultimi si lanceranno in contese di parte, più o meno apertamente sostenute da potentati stranieri. La stampa di destra infierisce su chi non esalta la giornata elettorale, come ostinati nemici della democrazia portata dai cingoli dei carri armati. Tratta gli eventi storici come strumenti di propaganda e dimentica che la valutazione su di essi potrà darla solo una lettura non ideologica e contingente delle loro conseguenze a medio e lungo termine. Il che vale anche tra il corto circuito oggi di moda tra supposta bontà della guerra preventiva e momentaneo successo elettorale. I morti che, da una parte e dall’altra, collegano i due fatti, anche li separano con un fossato invalicabile. La storia che verrà aiuterà a chiarire il problema. Ma fin d’ora possiamo dire che neppure la nascita della democrazia cancella il crimine di una guerra, perché abbattere una dittatura con la dittatura delle armi è una sostituzione, che invoca ancora una vera liberazione. Oggi il compito fondamentale per chi ama la pace giusta in Iraq è – come scrive con buone ragioni un comunicato di «Un ponte per...» – la ricerca del dialogo tra le componenti della società, della conciliazione e dell’unità del paese nelle sue molteplici etnie, che scongiuri la guerra civile e permetta all’Iraq di riconquistare la sua indipendenza nella comunità dei popoli. |