UNA TIPOLOGIA |
La guerra, questo camaleonte |
Attingendo alla vasta letteratura che in questi ultimi anni ha cercato di cogliere le trasformazioni della guerra vorrei elencare e iniziare a discutere alcune delle caratteristiche che possono definire le guerre del nostro tempo rispetto a quelle del passato. Guerra globale. In un recente saggio di Carlo Galli che reca appunto questo titolo (Laterza 2002) la globalizzazione viene vista come l’«orizzonte esplicativo» degli eventi del nostro tempo, e particolarmente della guerra. Questo non significa che sia la globalizzazione a causare direttamente questa o quella guerra, ciascuna delle quali ha fattori propri, magari remoti; ma certo essa ne detta o ne condiziona profondamente le forme, il modo di manifestarsi e di evolvere. Alla base di tutto c’è una destrutturazione del quadro spaziale (spesso anche di quello temporale: si veda oltre per il cortocircuito tra arcaico e postmoderno che si trova ad esempio in Bin Laden). Le frontiere, che erano in passato il luogo d’elezione delle tensioni e dei conflitti, ora non sono più così significative. Non c’è più la divisione tra lo spazio esterno dello Stato in cui «può capitare di tutto», e lo spazio interno, garantito dalla sovranità statale. Lo Stato non è più in grado di filtrare il disordine dell’ambiente esterno (atti terroristici, flussi migratori, movimenti di capitali). «Ogni angolo di mondo è in presa diretta con tutto il mondo; in ogni punto la globalizzazione è il cortocircuito immediato tra locale e globale ... ogni punto è in diretto contatto con le potenze dei flussi globali di potere» (op. cit., p. 51). Nel sistema-mondo viene a mancare ogni esteriorità come ogni interiorità: unico ma discontinuo, privo di centro, il sistema è in lotta con se stesso, con le proprie funzioni anomale. Di conseguenza, la guerra non passa più attraverso lo Stato e le sue frontiere (con poche eccezioni nei decenni scorsi: Gran Bretagna-Argentina, Iran-Iraq, India-Pakistan), non ci sono tanto avanzate o ritirate, quanto «atti che concentrano logiche di guerra, logiche economiche e logiche tecniche (tecnologie) in spazi “puntuali” e in tempo reale: una guerra glocale, in cui il punto singolo è in contatto immediato col Tutto» (op. cit., pp. 54-55). Da ciò anche una maggiore difficoltà di diagnosticare la natura e la gravità di certi conflitti: proprio come un medico può chiedersi se una eruzione cutanea sia un disturbo locale, o il primo sintomo di una malattia mortale. Guerra totale. Questa denominazione non è da intendere tanto nel senso delle due guerre mondiali, per cui l’intero sistema produttivo viene finalizzato alla guerra, mobilitata la società civile per compiti paramilitari ecc., ma nel senso di un uso di un arsenale sempre più ampio di mezzi sempre più raffinati (guerra psicologica, guerra tecnologica, guerra dell’informazione), della mobilitazione delle più diverse linee di ricerca scientifiche con possibili risvolti militari mediante investimenti da capogiro, dopo il relativo abbassamento delle spese militari negli anni Novanta. In questo senso Alessandro Dal Lago (Guerra ubiqua, nel volume collettivo Il globo e la spada, Medusa 2004, pp. 164-66) sostiene che la “massa critica” del potenziale tecnologico-militare Usa è tale da porli trent’anni avanti rispetto ai loro inseguitori. E tuttavia, lo stesso autore aggiunge che si tratta di uno «strapotere militare instabile» che non mira a dominare dei territori, ma piuttosto a creare governi locali fedeli, anche se deboli (Afghanistan, Iraq). Questo, sia per il carattere della società americana che è (come ci hanno ricordato i film di Michael Moore) notevolmente violenta ma non militaristica (il modello non è tanto il soldato quanto il cow-boy delle praterie), sia per il carattere e le dimensioni dell’esercito, relativamente ridotto e reclutato in gran misura tra i giovani dei ceti economicamente e culturalmente svantaggiati. Guerra psicologica. Lo scopo finale dell’arsenale di cui si è detto non è tanto la distruzione fisica (di persone o di strutture produttive); si studiano armi sempre più selettive (almeno in teoria: ma in Iraq e altrove il rapporto dei caduti tra occupanti e occupati è almeno di 1 a 10). Il vero obiettivo è comunque più che mai il dominio delle menti, la loro colonizzazione; e la via più diretta per arrivarci è la retorica nel senso più ampio: dalla propaganda di guerra alla diffusione di modelli occidentali attraverso i film e le televisioni. Da questa guerra psicologica occorrerebbe in parte distinguere la guerra dell’informazione vera e propria (da non confondere con quella informatica, anch’essa un campo d’azione in pieno sviluppo): un insieme di espedienti (in fondo vecchi come il mondo, ma tecnologicamente aggiornati) per accecare il nemico, fornendogli informazioni fuorvianti, oppure per ingannare il mondo e particolarmente il proprio paese, diffondendo un’immagine rassicurante o comunque accettabile delle operazioni militari (molti corrispondenti di guerra hanno denunciato la morte della loro professione, che li ha ridotti a divulgatori delle verità ufficiali dello stato maggiore dell’esercito). Tutte strategie che possono ritorcersi contro chi le usa, come dimostra la storia delle armi di distruzione di massa dell’Iraq. È un fatto che le bugie spesso a breve termine funzionano, ma il proverbio ci ricorda che hanno le gambe corte. Il maggior pericolo per chi le usa non è che non funzionino, ma che funzionino troppo: che chi ha mentito finisca per credere alle proprie bugie, andando per questo in rovina (un esempio tipico mi pare quello di Mussolini, il quale a forza di ripetere che l’Italia era una grande potenza, se ne era a un certo punto convinto). Non si tratta solo di bugie in senso stretto: anche una denominazione rigida come “terrorismo” può essere una prigione, in quanto fa scattare una barriera che in un primo tempo serve per mobilitare il sostegno allo sforzo bellico (l’impero del Bene contro l’impero del Male), ma della quale si rimane poi prigionieri senza poter più fare marcia indietro, rimanendo infine intrappolati come è successo agli Usa in Vietnam e ora sta succedendo in Iraq; o senza potersi porre le domande giuste, ad esempio: non sarà che se ci odiano tanto, non ci sia qualche responsabilità da parte nostra? L’opinione pubblica tedesca durante la prima guerra mondiale era seriamente scandalizzata del fatto che nel Belgio (neutrale) proditoriamente invaso, i soldati tedeschi venissero ogni tanto presi a fucilate da indigeni appostati dietro le siepi, evidentemente barbari e meritevoli di severa punizione. Anche gli americani avevano previsto da tempo scenari di guerra “asimmetrica” del tipo di quella irakena, e avevano disegnato una complessa strategia per farvi fronte, dimenticando solo il fattore essenziale: l’atteggiamento della società irakena dopo la (scontata) conquista militare del paese. Guerra infinita, guerra a bassa intensità, guerra diffusa e dissimulata, guerra permanente. Queste denominazioni (sostanzialmente equivalenti) derivano dal collasso della spazialità statale di cui si è detto. Sfruttando le attuali, fino a poco tempo fa impensabili possibilità di comunicazione, da internet ai telefonini satellitari, sia il terrorismo che le forze che lo combattono formano reti, s’infiltrano a vicenda, si spostano parassitando stati in via di disfacimento (ad esempio nei Balcani) o completamente dissolti (come la Somalia), traggono risorse da fonti d’informazione, di finanziamento e di armamento attualmente accessibili ovunque. Siamo entrati in una zona grigia d’indistinzione tra pace e guerra, tra civile e militare, tra nemico e criminale (proprio come in campo sanitario ci stiamo abituando a una situazione intermedia tra la malattia e la salute, a malattie un tempo mortali che ora si possono rallentare quasi indefinitamente). Guerra d’impero? Certamente esiste un impero al cui centro sono gli Usa, ma il soggetto dell’impero, come ci avvertiva già l’opera di Negri e Hardt (Impero, pubblicata in America nel 2000 e in Italia nel 2001) non sono tanto gli Usa quanto una società globale (formata da Stati, ma anche da organizzazioni internazionali, da imprese multinazionali, da organizzazioni non governative, da soggetti della criminalità globale) in rapida formazione e trasformazione, che potrebbe in un domani non tanto lontano trovare il proprio baricentro altrove, e questo in qualche misura sta già avvenendo. La globalizzazione potrebbe essere paragonata a un’onda oceanica, mossa dalla forza del mercato globale, non propriamente controllata da nessuno anche se molti cercano di controllarla. In questo momento la stanno cavalcando gli Usa, ma un domani sulla cresta dell’onda potrebbe esserci qualcun altro, ad esempio la Cina. Altri purtroppo sono travolti e rischiano di annegare. Quanto all’Europa, essa si pone in una posizione più defilata, meno ricca di promesse ma anche di rischi (e personalmente la cosa non mi dispiace affatto). Più che di guerra d’impero sarebbe pertanto giusto parlare di guerra civile mondiale: conflitto «tra un Impero e un contro-Impero che non hanno confini in comune ma che entrano uno nell’altro, entrambi de-territorializzati ed entrambi alla ricerca di un’identità legittimata politicamente» (Galli, op. cit., p. 68). Quando si parla di impero il pensiero corre naturalmente all’impero romano, uno dei pochi casi della storia paragonabili all’attuale situazione. I Romani erano assolutamente spietati come conquistatori, ma una volta completata la conquista, sapevano anche gestire un impero multinazionale dandogli leggi certe, la pace e il senso d’una comune identità. La politica Usa non sembra tendere alla realizzazione di un impero universale di tipo romano, quanto piuttosto al perseguimento di un «national interest» che però è al tempo stesso presentato come bene universale (onde l’azione dell’impero si presenta come un lavoro di poliziotti e di pompieri, più che di costruzione di un nuovo ordine mondiale). Guerra asimmetrica? Certo, ma anche qui occorre precisare. A prima vista, la guerra dell’Impero contro il terrorismo è estremamente asimmetrica. Pensiamo da un lato alle armi ultrasofisticate, agli aerei invisibili, ai cannoni a puntamento laser, ai missili cosiddetti intelligenti, dall’altro al kamikaze che si fa esplodere (o che dirotta un aereo col temperino). In fin dei conti si riscopre sempre che l’arma più temibile è l’uomo, l’uomo che non solo è disposto a morire ma si considera già morto, l’uomo mosso dall’odio e dall’amore oltreché guidato da un’intelligenza più sottile di quella di qualsiasi macchina. Dall’altro lato però l’asimmetria sfuma: non solo perché il terrorista può organizzarsi militarmente in maniera assai raffinata, ma anche perché gli Stati si comportano sempre più come terroristi. Non è il caso qui di ricorrere solo ad Israele e ai metodi del Mossad, o alle gabbie di Guantanamo; o di trovare la scusa che si è costretti a fare certe cose obtorto collo solo per battere il terrorismo. In realtà gli Stati queste cose (si pensi solo agli omicidi politici all’interno e all’estero) le hanno sempre fatte, s’intende più o meno a seconda dei tempi e dei luoghi, solo guardandosi bene dal dirlo, per poter chiamare terroristi gli altri (i quali invece sbandierano le proprie azioni, e in questo c’è effettivamente asimmetria). |