DISCUSSIONE |
La via marxista alla nonviolenza |
È vero che nel marxismo, «filosofia radicalmente immanentistica e storicistica, che ... non solo non riconosce autonomia propria alla morale ma la incorpora e dissolve come riflesso nella processualità storica e sociale, non v’è spazio per una riflessione etica sulla legittimità dei mezzi (sulla natura degli strumenti) ma solo sul loro grado di operatività (di utilizzabilità strumentale)» (p. 90). È vero che molti tratti del pensiero di Marx vanno chiaramente in senso opposto alla nonviolenza e al pacifismo, ma Revelli invita a non essere marxisti nel «pessimo modo» di «rinchiudersi nelle antiche certezze (ormai più linguistiche che altro), nell’orgogliosa difesa di una continuità acritica, di una tradizione giudicata intoccabile e indiscutibile» (p. 89). Nell’affrontare «l’improbabile coppia marxismo e nonviolenza», Marco Revelli ricorda che «il marxismo è filosofia della prassi... un pensiero che riconosce la propria origine e la propria verifica nel fare» (p. 87). Della XI tesi su Feuerbach propone di dare non solo l’interpretazione «consueta, della vulgata», ma anche «quella opposta, che impone alla filosofia ... di non rimanere inerte, e sorda, e cieca, di fronte ai mutamenti del reale, ma di lasciarsi trasformare dalle trasformazioni del mondo ». «A chi ha fatto della Storia (con la esse maiuscola) il supremo giudice del proprio agire individuale e collettivo, non è dato sottrarsi alle dure repliche della storia (come le chiamava Togliatti). Alle cadute e ai fallimenti. Alle svolte e alle rotture di continuità» (p. 88). C’è la «profonda cesura consumatasi ... nel densissimo spazio temporale che va dalla caduta del Muro alla caduta delle Torri» (p. 86). Bisogna prenderne atto, «lasciarsi trasformare» da questa epocale «trasformazione del mondo», avvenuta in chiusura del secolo della bomba atomica, lasciarsi orientare dalla storia in senso pacifista e nonviolento. La prova del tempo La cultura storicista, incapace di guardare alla storia con distacco, per lunga educazione a cercare in essa il suo senso, a non «sottrarsi alle dure repliche della storia», ad andare a lezione dai fatti, divinizza i fatti più traumatici, li carica di significato epocale, vede in essi la “rivelazione” dei nuovi sensi che le rotture storiche impongono alla storia. Ma al di sopra della storia, dei fatti epocali, non c’è solo la voce virgiliana degli dei o la voce agostiniana della trascendenza cristiana, c’è anche l’imperativo categorico kantiano e tanti altri modi di portare la razionalità al di sopra dei fatti, sottraendo la morale e la politica alla tendenza a farsi incorporare e dissolvere come riflesso nella processualità storica. Revelli tenta di sottrarsi alla presa mortale dello storicismo. Ma, se la mancata autonomia morale è un limite dello storicismo, perché invocare lo storicismo marxista per proporre ai comunisti la svolta epocale di sottoporre i mezzi alla riflessione morale? E perché non investire anche i fini in una sola riflessione morale sui fini e sui mezzi? Perché lasciare che i fini li imponga la storia e non alla nonviolenza la riflessione morale associata e collettiva, la forma più alta di elaborazione politica? Anche le belle pagine (99-103) dedicate a Rosa Luxemburg aprono spiragli di «ripensamento politico ed esistenziale», mettono bene in luce la «umanissima ambivalenza, la ... oscillazione tra epica e lirica, tra politica pubblica ed etica privata», tra la «spietata» attività rivoluzionaria e «la partecipazione empatica alla totalità della vita», la lacerazione dell’anima tra la missione storica e i sentimenti ma anche la morale individuale. Una divisione allora soffocata ma che i fallimenti del Novecento e le «fratture» storiche in esso prodotte riaprono all’attualità, mentre il solido monolitismo di Trotskij che scrive l’apologia del terrorismo rivoluzionario «sembra che non abbia superato la prova del tempo». «La prova del tempo» ripropone pubblicamente la moralità che Rosa Luxemburg ha dovuto chiudere nel privato e rovescia in orrore morale l’apologia del terrore di Trotskij. Con «la prova del tempo» Revelli chiude ogni spiraglio, ogni possibilità di uscire dal tempo e di valutarlo, e pratica proprio quella dissoluzione e incorporazione della morale nel processo storico, come suo riflesso, che egli sembrava rimproverare allo storicismo. Perché non riconoscere che in quegli anni c’era chi quella sensibilità morale non la soffocava nel privato e chi condannava la morale rivoluzionaria di Trotzkij? Perché non dire che avevano ragione già allora, anche se la loro ragione è diventata attuale solo adesso? (Ma non è vero nemmeno questo). Se si deve uscire dalla dissoluzione della morale nel corso storico e muovere verso l’universalismo morale, perché presentare questa proposta come frutto storico? Perché non riconoscere che la via dell’universalismo (spaziale ma anche temporale, altrimenti che universalismo è?) morale è aperta da millenni e non sono stati i disastri del Novecento ad aprirla? In Revelli, invece, ancora una volta la strada ce la indica la storia. «La frattura di classe non scompare, certo, ma si relativizza di fronte alle minacce globali»; «il confine dell’antagonismo ... spacca il nostro io»; «la liberazione sarà lunga, difficile, affidata a un lungo corpo a corpo con noi stessi». Ci vuole «una metamorfosi esistenziale. Un mutamento antropologico ... che reca in sé il pericolo estremo dell’integralismo, dell’autoritarismo, dell’intolleranza, della sopraffazione». Per questo «è essenziale l’assunzione di una rigorosa pratica nonviolenta». Ancora una volta in cammino verso l’uomo nuovo, ancora un cambiamento antropologico, ma con gli anticorpi nonviolenti e pacificisti che la storia ci indica come «l’unica forma di innovazione politica all’altezza delle sfide del nostro tempo» (pp. 85-86). Ancora una volta, non c’è scelta, non c’è via d’uscita, la strada è quella indicata dalla storia, dalla Storia. Universalismo morale La marxiana filosofia della prassi che ha portato Marx a teorizzare la divisione dell’umanità in classi porta Revelli alla divisione dell’io. È un rovesciamento di 180 gradi, ma compiuto nel più autentico spirito marxiano. Lo storicismo resta la stella polare, cambiano i contenuti teleologici perché la storia ha mandato in disuso quelli di Trotskij e ne impone di nuovi. L’imperativo della filosofia della prassi è l’attualità. «Ad altri potrà essere concessa la consolazione di una coerenza formale ai principi di fronte al tradimento di una mondanità che se ne va da un’altra parte. A taluni potrà perfino offrire un qualche risarcimento l’affermazione orgogliosa d’una nobile inattualità. Ai marxisti no» (p. 88). Oggi l’attualità impone di sottrarre la moralità allo storicismo e di riaprirla all’universalismo. Ma una universalità imposta dall’attualità è una contraddizione in termini. Se si vuole riscoprire l’universalismo etico che lo storicismo ha dissolto nei processi storici, bisogna fare giudizi universali, come Dante, e non giustificazioni storiche, come Marx. O si pensa che l’universalismo etico sia imposto dalla globalizzazione e valga solo spazialmente? Prima di accettare dalla storia nuovi compiti titanici, nuovi tentativi di raddrizzare il «legno storto », perché non ammettere semplicemente i gravi errori? Se il comunismo, per il suo spirito di crociata e il suo fanatismo religioso, in Urss, non solo non ha prodotto “l’uomo nuovo” ma ha dissolto «anche il poco di socialità originaria» (p. 106), perché passare dalla crociata al suo simmetrico opposto? Non sarebbe male far tesoro della storia del cristianesimo e dei suoi difficili rapporti con la guerra e la violenza. C’è molto su cui riflettere. Si può scoprire che a opporsi alle guerre di religione non si è mosso solo il movimento cristiano bimillenario del pacifismo, il suo oppositore simmetrico, ma anche i teorici della guerra giusta (proprio in base alla teoria della guerra giusta, intorno al 1520, l’Università di Salamanca ha condannato, in seduta solenne, la conquista spagnola dell’America). Per opporsi al fanatismo religioso non è necessario animarsi di religioso e palingenetico antifanatismo, basta l’uso sobrio della ragione, propria e altrui, possibilmente non da soli. Giuseppe Bailone |