TEOLOGIA
Orfani del peccato


Giustamente si guarda alla nostra come ad un’epoca battuta da un’onda montante di scristianizzazione. Ciò è tale sotto molteplici aspetti. Forse la devozione di cui più si avverte oggi la mancanza nelle nostre vite non è tanto quella che si deve a Dio, ma quella che si dovrebbe al diavolo. Bisogna ammettere che il danno più devastante causatoci dall’Illuminismo sta nell’aver contribuito, in modo decisivo, a renderci orfani del senso del peccato. Affermazione che certo non sarebbe onesta, se non sapesse guardare anche alla perversa spirale di dannazione individuale che impasta la dottrina agostiniana del peccato originale e dal cui peso le filosofie illuministiche hanno saputo alleviarci. Eppure il male come colpa non è solo confinabile entro un recinto oscurantista. Il peccato è l’orgoglio dell’uomo che si illude di poter dar vita ad un mondo interamente giusto, anche se solamente umano. Una volta sgomberato il campo da ogni terroristico riferimento ad Inferni medioevali e a ereditarietà biologiche, il peccato conduce a un uomo impossibilitato a liberarsi interamente dal male con le proprie forze e alla nozione di questo male come una potenza sovraindividuale legata ad un residuo di mistero. Non è una posizione venata d’automatica rassegnazione, ma è una posizione che non elegge lo spazio umano a luogo di salvezza.

La sfida illuminista

La grande sfida degli illuministi è stata quella di liberarci dal senso di colpa. Per loro, eredi in questo dell’intellettualismo etico socratico-platonico, il male è errore; qui la storia del moderno corre su di una linea che ha cercato di trasformare il peccatore in criminale. Peccatori lo si è in quanto implicati in un destino metafisico non totalmente in nostro potere, criminali per circostanze umane che si possono cambiare – non solo, peccatori lo si è tutti, criminali a seconda dei punti di vista. Se il male non è che un errore l’uomo, pur con difficoltà, può individuarne ogni causa. Progredendo in conoscenza arriverà a mettere fine agli orrori della storia, mutando gli assetti della società, migliorandone le leggi, rendendo più equa la ripartizione delle ricchezze. Se il male non è che errore, gli uomini possono estirparne persino le radici, perché la sua realtà dipende dalle regole che si è in grado di darsi. Nei fatti, sia marxismo che liberismo sono rami di questo tronco. Certo tutto questo non senza oscillazioni e sfumature, l’illuminismo è anche un laboratorio del pensiero critico mica solo l’epicentro di un mieloso ottimismo, e mirare a una legislazione più equa è un prezioso bene politico, non un trascurabile accidente. Eppure salta subito agli occhi la differenza tra i complessivamente rassicuranti scenari illuministi del male e quel Kant che questi pensatori ammira, che in qualche modo ne fa parte, ma che con le sue pagine sul male radicale, tanto rimproverategli da Goethe, suona altri tasti, perché, pur non considerando la malvagità necessariamente inerente alla specie umana, ritiene si dia nell’uomo una «tendenza naturale al male» e l’«origine razionale» di questa tendenza resti unerforschbar, «imperscrutabile». E con questo sfiora di sicuro strati più profondi del nostro essere.

Con il suo mistero d’iniquità il cristianesimo ci fornisce l’aiuto più prezioso per non sottovalutare il male. E, detto per inciso, il merito di The Passion risiedeva proprio nella capacità, oggi assai rara, di prendere il male sul serio. Il film non lo si indebolisce con il richiamo al Gesù storico (anche se è vero che Gibson stesso è andato ad infilarsi in questa pania, con la pretesa d’aver girato un quasi documentario sulla morte di Cristo), perché a contare non è il puntiglio filologico ma la messa in scena di un mito (nel suo senso essenziale di racconto paradigmatico che dice una verità non razionalizzabile, non in quello illuministico di favoletta superata dall’analisi della ragione): il mito del maligno, della malvagità che persiste nella storia, e che solo l’amore di Dio può cancellare dalla storia. Non è meno vero, del resto, che nella tradizione cristiana coesistono due anime. Una intende appunto il male quale presenza assillante e pur guardandosi sempre, in contraddizione con l’avversario manicheo, dal farne un vero e proprio principio antagonista, nei fatti finisce per andarci molto vicino, attribuendo al demonio una consistenza personale. L’altra anima, dalla privatio boni di Agostino alla teodicea leibniziana, sottovaluta lo scandalo del soffrire e la sua intensità esistenziale. Schematizzando si potrebbe dire che la prima deriva dall’eredità ebraica, la seconda da quella greca. In Agostino, che legge Plotino e si convince di ritrovare nelle Enneadi il Dio e il Verbo di Giovanni, ma conia anche l’espressione peccatum originale e si tormenta sulla Grazia stimolato da Paolo, sono già entrambe presenti in modo esemplare. Attorno alla loro convivenza e alla loro impossibile conciliazione ruotano due millenni di patimenti teologici.

Agire come se

Il senso di colpa, negli strati più diffusi della società occidentale almeno, attraversa una grave crisi, la attraversa da oltre due secoli, e ancor più da cinquant’anni a questa parte. Non solo sembra in estinzione la pratica religiosa del confessarsi, ma anche la sua variante laica del domandare scusa, dell’assunzione di responsabilità pare latitare, in politica come nell’esistenza quotidiana. Va riconosciuto che, coerentemente al suo credo, questo papa ha saputo farla propria, anche se, malignano gli incontentabili, limitandosi a domandare perdono per errori e colpe altrui. La colpa, la nostra colpa, è ciò a cui più di tutto vorremmo rinunciare, la diffusione della spiritualità new age ne costituisce un riscontro tangibile: si aspira a una facile liberazione, a itinerari teosofici privi di asperità.

Tutto questo, pur con tortuosità, si riflette in un’ambizione fondamentale, che nonostante le tragiche disillusioni del Novecento persiste: eliminare il male, credere che per domarlo possano bastare strumenti umani. Se il male è errore, il suo corrispettivo è una soluzione, ma è proprio la pretesa di individuare la soluzione giusta la tentazione da evitare. Pur con tutti i loro limiti, le chiese cristiane hanno il merito di tener ancora vivo il senso della differenza fra Dio e l’uomo, e di cercare di ricordare a quest’ultimo la sua finitezza per impedirgli di eleggersi a manipolatore illimitato delle cose. La convinzione di poter identificare nemici assoluti sorge dalla persuasione, più o meno cosciente, che il male si addensi in uno o pochi ostacoli, rimossi i quali l’armonia finale sarebbe in vista. Credere d’essere in grado di vincere il male, invece che limitarsi a combatterlo, conduce l’uomo al massimo peccato d’orgoglio: pensare d’esser capace di trovarsi oltre la storia, condurla a termine solo con le proprie mani.

Molti paiono ai nostri giorni contagiati da questa convinzione di sapere con certezza cosa sia il male. Bush ha parlato di un Asse del male, una porzione non esigua del mondo islamico vede negli Stati Uniti, forse nell’intero Occidente, il Grande Satana, l’estremismo movimentista ritiene il potere americano responsabile di tutta l’ingiustizia economica che grava il mondo. C’è chi arriva a riconoscere in Bush l’Anticristo – ma è tesi ardua da sostenere, perché l’Anticristo è in primo luogo un seduttore e Bush non sembra in grado di sedurre quasi nessuno. Sotto tutto questo molti avvertono un continuo sobbollire del “religioso”. È vero naturalmente, ma lo è nella misura in cui alcuni spettri di ciò che è secolarizzato derivano da categorie religiose. Lo è perché l’escatologia può essere politicizzata, più o meno manifestamente. Il presidente degli Stati Uniti, che non sembra ritenere il potere alla stregua di un freno (un katechon) del male, ma come lo strumento per debellarlo alla radice si direbbe più vicino a un giacobino del Terrore che ad un, pur scellerato, sovrano cristiano. La pretesa di sradicare il male è per eccellenza il peccato d’orgoglio da cui guardarsi, volerlo estinguere invece che depotenziare e ridurre il più possibile, cercando di bilanciarlo con contrappesi, provando a contenerlo più che ergendoglisi di fronte, con attacchi laterali ma incessanti, senza commettere mai la leggerezza di identificarlo in una persona, in un popolo, in un’idea. A tutto questo la lotta nonviolenta può contribuire nel profondo, a patto che non la si assuma a sua volta con solletico d’orgoglio, dunque in modo critico e non dogmatico, realistico e non utopico, come una possibilità dell’umano e non come la verità dell’umano, come opzione ma non come soluzione indiscutibile. E poi sentirsi parte in causa d’ogni infinitesimo dolore che accade nel mondo, sapere, come il fratello dello starec Zosima nei Karamazov, che «ciascuno di fronte a tutti è per tutti e di tutto colpevole».

Alla fine vien quasi da ricavarne una sorta di formula kantiana: agisci come se il male non fosse mai eliminabile nella sua essenza profonda. Forse, a partire da qui, lo si riuscirebbe a combattere con più modestia e maggior vigore.

Massimiliano Fortuna


 
 
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