PRIVATE

Uno spiraglio tra occupati e occupanti

Documentario è la registrazione di eventi vissuti, con tutti i limiti che la realtà impone alla registrazione. Narrazione scenica è la ricostruzione di eventi, con gli artifici resi possibili dalla tecnica di ripresa, e con l’arte della recitazione. Saverio Costanzo, documentarista esperto e regista esordiente, riesce a sintetizzare i due modi in Private.

Non esiste una storia in Private, è una situazione che viene narrata. La casa di una famiglia palestinese viene occupata da una pattuglia di soldati israeliani. La famiglia oppone resistenza all’espulsione. Entrambi si adattano a una coesistenza dura: il piano superiore agli israeliani, una stanza al pianoterra ai palestinesi, che possono accedere alla cucina solo sotto il controllo degli occupanti. Il palcoscenico della vicenda sta tutto racchiuso in questa casa, allegoria della situazione mediorientale. Non ci stupisce che la casa vera, dove il film è stato girato, si trovi in Calabria.

Private non è un documentario, è un discorso simbolico – non è un racconto, la storia finisce esattamente come è cominciata: la pattuglia riceve l’ordine di abbandonare la casa, che però viene subito rioccupata da un’altra pattuglia, che ripete la stessa ingiunzione che abbiamo udito all’inizio: «Questa casa è requisita dall’esercito di Israele».

La guerra incombe

Un ipotetico spettatore che ignorasse i termini del conflitto, uscirebbe ancora più ignaro. Nel film non sono espressi i motivi di ciò che accade, la guerra incombe come raffiche di spari nella notte, di cui si ignorano cause, scopi e provenienza. Lo spettatore viene tuttavia colpito dalla violenza dei fatti attraverso la durezza della tecnica da documentario: le scene notturne sono su pellicola nera e sgranata, i momenti di concitazione sono ripresi da una camera instabile, tutto serve a trasmettere allo spettatore il malessere che vivono i protagonisti.

Come la casa è un simbolo, così sono gli uomini e le donne che ci vivono e si confrontano tra loro. Nell’edizione italiana, i palestinesi parlano italiano, gli israeliani parlano ebraico, e i dialoghi tra le due parti si svolgono in inglese, la lingua resa nota e comune ad arabi ed ebrei dal tempo del mandato coloniale britannico.

Il comandante israeliano è un fanatico violento. Tra i soldati, alcuni sopportano la loro missione come dovuta, ma non si pongono domande e cercano l’evasione suonando il flauto e guardando la partita di calcio nel televisore dei padroni di casa. Uno dei soldati invece si pone delle domande e cerca di modificare i fatti anziché subirli. Così, quando il comandante arriva ad armare e puntare la pistola alla tempia del padre palestinese, per terrorizzarlo e indurlo a lasciare la casa, sono poche parole in ebraico che lo fermano: «Yesh kol mispahat » («C’è tutta la famiglia!»).

La famiglia palestinese: i genitori, cinque figli. La madre ha paura, teme la violenza degli occupanti, vorrebbe andarsene. Uno dei figli ha un amico pronto a ospitarlo, anche lui abbandonerebbe. La figlia più piccola non capisce, ed è la più esposta alla violenza. Il bambino è curioso, vuole sapere i nomi dei soldati. La figlia maggiore vuole capire chi sono costoro che hanno violato la sua casa, che cosa pensano e dicono. Un altro figlio vuole reagire con la violenza, e riesce a fabbricare, con una bomba a mano sottratta ai soldati, una patetica ma non innocua trappola esplosiva.

Su tutti domina la figura del padre (l’attore palestinese Mohammad Bakri). Sguardi, gesti e parole da patriarca. Ha fatto la sua scelta e la impone con dignità e coraggio alla famiglia e agli occupanti: resistere con la normalità e la perseveranza. Dopo la pistola puntata alla tempia, ritorna tra la sua famiglia e si preoccupa solo di essa, nel quotidiano e nel futuro. I figli devono continuare ad andare a scuola, la figlia maggiore non deve perdere l’opportunità di andare a studiare in Germania e tornare a lavorare per la sua gente, l’altro figlio non deve farsi tentare dalla violenza, e, soprattutto, la casa non deve essere abbandonata: «Non voglio essere un rifugiato per sempre».

Un film di speranza

Il dialogo tra occupanti e occupati non esiste, ma lo si cerca. Avviene, finalmente, nella notte in cui il padre va in cucina per bere e vi trova il comandante. Dialogo pacato e razionale: «Perché non ti decidi a lasciare la casa?». «Perché è la mia casa». Silenzio. «E tu, perché non te ne vai da questa casa che non è tua?». Allusione lampante, però il dialogo pare svolgersi in un sogno...

Il film mostra direttamente la famiglia palestinese. Che cosa accada tra i soldati ci viene invece mostrato con un espediente che lo stesso Costanzo definisce «trovata». La figlia maggiore trasgredisce rischiosamente le regole, sale più volte al piano superiore per chiudersi in un armadio e spiare. Così lo spettatore vede quello che lei vede, dallo spiraglio del battente accostato. Il momento più alto del film è l’incontro di due sguardi attraverso quello spiraglio. Il soldato vede la ragazza, capisce, i loro occhi si incontrano, poi il soldato si allontana per distrarre i commilitoni, ma lancia un ultimo sguardo attraverso la fessura. Pochi attimi, ripresi dal punto di vista della ragazza nascosta. Possiamo vederci tutti i simboli di un futuro apparentemente desiderato da entrambe le parti, ma lontano.

«Io credo che esista l’umanità e l’amore che proteggono la nostra responsabilità. Bisogna smettere di aver paura di sembrare antisemiti semplicemente criticando o mostrando le cose che non vanno nella società e nel governo israeliano», ha dichiarato Mohammad Bakri, protagonista del film ma anche attore del dramma mediorientale, nell’incontro con la stampa. «Noi non vogliamo giudicare né la società israeliana né i soldati. In tutto c’è il bene e il male, il bello e il brutto e questo vale anche per i palestinesi». E Tomer Russo, uno degli attori israeliani, ha raccontato: «Ho passato tre anni della mia vita nell’esercito, nei Territori occupati, facendo esattamente le stesse cose che si vedono in questo film. Tutti i giorni ci sono delle situazioni che si riproducono e ogni giorno ci sono delle reazioni diverse: ci sono dei soldati molto violenti, altri molto pacifici, ci sono soldati che non danno molta importanza a quello che fanno e altri che sono carichi di odio. Io ho cercato di essere sempre me stesso come soldato e quindi di portare la mia verità senza cercare esageratamente un equilibrio».

Gianfranco Accattino

 
 
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