LEOPARDIANAMENTE

Catastrofismo mite


C’è chi ha messo in relazione lo spaventoso maremoto asiatico con gli effetti degli esperimenti nucleari. Né si tratterebbe di un caso isolato, secondo queste analisi salta fuori una coincidenza troppo sospetta fra molti terremoti degli ultimi decenni e attività umane. I «fattori primari» del recente tsunami sarebbero il riscaldamento del pianeta e le esplosioni nucleari. Dunque la colpa essenziale ricade sugli uomini, per larga parte.

L’animale uomo sembra spesso pervaso da un bisogno fondamentale, che si snoda in due direzioni affini: sentirsi al centro delle cose e produrre su stesso ed il suo destino pensieri rassicuranti. Una natura leopardiana che produce devastazioni in gelida indifferenza alle nostre vite fa troppa paura, allora è meglio attenuarne le potenzialità distruttive. La tesi che questo terremoto e alcuni fra quelli passati debbano la loro dirompenza assassina a cause più umane che naturali suona come un pensiero piuttosto forzato. Ma anche se tutto ciò si rivelasse interamente vero resterebbe un fatto: la tentazione di guardare alla natura come sede di un’originaria purezza e all’uomo come suo corruttore è un’idea fastidiosa annidata in non poche menti, un ecologismo da anime belle che dà spesso alimento ad una sorta di catastrofismo mite: l’uomo che non rispetta la natura finirà per andare incontro alla catastrofe, ma l’uomo rispettoso si salverà. Un automatismo comprensibile: se le chiavi della catastrofe sono in mani umane, per l’essenziale almeno, l’unico ago della bilancia è l’uomo, dalla sua volontà dipenderà l’immergersi nella sciagura o il tirarsene fuori. Ma un automatismo ingenuo, saturo di consolazione, perché incline a rendersi cieco al grumo di violenza e all’impeto distruttore di tutto quel che è altro dall’uomo. Come non avvedersi che il mondo è un luogo in ogni caso catastrofico: non sarebbe sufficiente la morte a considerarlo tale? I figli vedono morire i propri genitori per cause assolutamente naturali, o ancor peggio può toccare ai genitori veder morire i figli.

La catastrofe è sempre, il che non significa che non sia indispensabile contrastarne l’avvento, per quanto sta in nostro potere. Che il cuore dell’umanità nei confronti del non umano sia nero di colpe non è in discussione, né è in discussione che all’homo faber occorra modificare, ed alla svelta, molti dei suoi atteggiamenti predatori neiconfronti degli altri organismi del pianeta, non foss’altro per continuare lui stesso a sopravvivere. Ugualmente ovvio che di responsabilità umane in quest’ultimo tsunami se ne possano contare diverse: gli allarmi maremoto che mancavano, la costruzione di edifici troppo prossimi alla costa, carenza di informazione (non si può tollerare che qualcuno non sappia che un mare che si ritira di molti metri è preludio di un pericolo). Ma la tentazione di guardare alla natura come a qualcosa di differente da un impietoso meccanismo di dolore e morte va repressa, se si tiene a preservare un residuo di pulizia intellettuale. I regni non umani sono spazi attraversati da brutalità inaudite, nei quali gli animali sopravvivono mangiandosi reciprocamente e reciprocamente infliggendosi sofferenze, in cui terremoti e vulcani possono, nella loro acefala necessità, far strage di viventi – terremoti ed eruzioni che ovviamente esistevano già milioni e milioni di anni prima che quei pelosi ominidi da cui discendiamo facessero capolino. L’obiezione secondo cui tutto ciò non si potrebbe a rigor di termini definire «brutalità» o «violenza», dal momento che queste rimandano ad una volontà passibile di giudizio morale di cui il regno animale, ed ancor più evidentemente quello vegetale e minerale, sono privi, è obiezione di scarsa sostanza: gli effetti della distruzione rimangono anche se chi li compie non possiede alcuna nozione di bene e male.

Qualsiasi posizione ecologica che non sappia guardare a tutto questo si priva di una base di serietà indispensabile per costruire un valido pensare ed un efficace agire contro le brutture umane. Perché quando l’animale uomo eccelle in devastazione, primato a cui non sembra facilmente intenzionato a rinunciare, non accade perché rinnega la natura, ma perché applica sino all’esasperazione quei meccanismi di distruzione che del mondo naturale sono parte.

Massimiliano Fortuna

 
 
[ Indice] [ Archivio] [ Pagina principale ]