Un amico prezioso mi fa un’osservazione sulla quale sto meditando. Parliamo dell’Iraq, io mi indigno per certe posizioni che, in nome del realismo, dei semi di democrazia, dell’aiuto concreto a quel popolo, invitano a superare le divisioni che sulla guerra voluta dal governo Usa avevano duramente opposto persone, partiti italiani e paesi europei. Mi fa notare, l’amico, attivo in un partito politico, che a me è facile sostenere posizioni intransigenti, perché non ho alcun compito decisionale e quindi non ho da fare alcuna mediazione. È vero: io posso parlare affermando le mie sincere convinzioni, quando sono abbastanza chiare. Le conseguenze delle mie parole sono soltanto proposte fatte a chi mi ascolta, non incidono e non determinano direttamente nulla nella realtà, se non molto alla lunga e alla lontana, se mai faranno corpo con l’analoga convinzione di molti altri.
È giusto che chi ha la possibilità di elaborare giudizi e proporli all’opinione pubblica tenga conto di questa differenza di ruoli, rispettando la minore “purezza” delle decisioni operative rispetto alle idee chiare. Un altro amico, che ha gestito responsabilità amministrative, diceva un giorno: «In politica, come in famiglia, bisogna volere anche qualcosa che non si vuole». È vero. Eppure...
Eppure, sono i criteri di valore che devono giudicare le azioni. Queste possono avvicinarsi più o meno al valore, ma non possono decidere del valore. È la morale che giudica le azioni, la storia, la cultura, e non viceversa (Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 84). Ognuno fa quello che può, e certo non di più, ma non può mai dire che il possibile è l’ideale e il giusto. Se non si mantiene viva questa tensione, tutto è perduto, perché vale solo la
forza che decide. Il rischio di chi pensa è di dimenticare il limite, il rischio di chi opera è di affogare nel limite. L’uno ha bisogno dell’altro. Ma l’occhio deve essere libero dall’inciampo del piede, per aiutare il piede a non inciampare.
Ora, nel caso della nostra discussione, bisogna sicuramente considerare la concreta realtà del-l’Iraq di oggi, con le 100.000 vittime civili della guerra (secondo The Lancet, rivista inglese), dolore moltiplicato per almeno dieci persone ogni vittima, con la fame popolare di pace e di libertà dall’occupazione, con le divisioni religiose, con il cancro oscuro e devastante del terrorismo risucchiato dalla guerra, con le stragi occultate come Falluja (su cui i vescovi italiani si ostinano nel silenzio, mentre scompaiono i giornalisti che indagano), con l’integralismo che si affaccia e la riduzione dei diritti delle donne, col bisogno di uscire in qualche modo dalla maledizione portata dalla guerra: tutto questo va considerato con realismo e chi deve decidere deve fare ciò che è possibile, imperfettamente, per ridurre tutti quei mali. Ma se, per fare questo, si mettesse tra parentesi e si tollerasse il crimine di una guerra fondata sul falso, scatenata da Bush senza alcun amore per la libertà dell’Iraq, ma solo per
superevidenti ragioni di strategia e di rapina economica, che ogni occhio sano e onesto vede; se il governo italiano continuasse a tenere bordone militare all’occupante, chiamando pace la guerra; se il giudizio del mondo tacesse sul crimine, accettando il fatto compiuto, tutto ciò tradirebbe i diritti dell’Iraq, di ogni altro popolo esposto alla
prepotenza, i diritti dell’intera umanità e le regole umane per convivere in un minimo di giustizia. Se tutte le voci cessassero di dire che l’intollerabile è intollerabile, l’offesa alle vittime e al diritto sarebbe ribadita e ripetuta. Se esitano e si affievoliscono le voci più forti, la più debole non tacerà, che qualcuno la senta o non la senta. Una voce non cambia il mondo. Ma che importa? E questa è la più importante delle decisioni pratiche.
Enrico Peyretti
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