QUASI UN DIARIO |
Davanti a Federico |
17 febbraio 2005 Federico ha 15 anni, è (stato) un mio allievo, in un certo senso: l’anno scorso dopo Pasqua quando ho avuto la supplenza lui però in classe non c’era già più. L’ho conosciuto dagli altri, il suo nome era nel registro, ma da febbraio gli avevano diagnosticato la leucemia. A marzo, credo, o inizio aprile era avvenuto il trapianto di midollo. In classe c’era il cugino e anche la professoressa di scienze ci aggiornava. Finita la scuola avevo più tempo, così sono andato a trovarlo al Regina Margherita. Era scheletrico, quasi sempre tranne poche volte l’ho visto dietro il vetro, sembrava di andare a vedere gli animali allo zoo, capivo che è imbarazzante mangiare mentre hai cinque parenti che ti guardano. S’è ripreso, e qualche volta abbiamo anche parlato più liberamente, entravo con la mascherina, qualche volta giocava. Poi ad agosto s’è aggravato, stava per fare 16 anni, e lui stava malissimo. Io avevo paura ad andarlo a trovare da solo... e nello stesso tempo non potevo fare a meno di sapere come stava. Lui chiedeva solo una cosa: quando sarebbe potuto di nuovo andare a scuola. Sognava solo questo. La scuola come normalità della vita. Che tenerezza. All’inizio dell’anno scolastico – sapevo che stava meglio, anche se non l’avevo più visto – un giorno viene davanti a scuola a farsi salutare dai compagni: che bello rivederlo, anche se magro, sostenuto dalla madre, con la solita mascherina verde! Ormai non insegnavo più in quella classe ma avevo sempre notizie. Non sono più andato a trovarlo: stava a casa mezza giornata e poi tornava a dormire all’ospedale, poi forse ha dormito per un po’ anche a casa, ha perfino fatto un breve viaggio al mare... Adesso saranno dieci giorni che si è aggravato, ma tanto: sta morendo. La mia collega mi parla tutti i giorni dei suoi occhi. Il rigetto glieli ha consumati, esce sangue dagli occhi e da altre parti per la mancanza di piastrine, e tuttavia lui è cosciente, pare. È cosciente! Ormai è da due giorni in rianimazione, gli hanno dato l’estrem’unzione. Insomma: io ci penso e ci ripenso. So che non è l’unica persona che soffre, per carità. Anche Enrico ha avuto di recente la perdita di suo fratello. Mio padre non è che stia così bene... Eppure. A me pensare a un ragazzo di 16 anni, dovreste conoscerlo, tutti i ragazzi di 16 anni bisognerebbe conoscerli perchè tutti sono speciali, è un’età folle e magnifica, lì come il Cristo in croce... Perché Federico deve soffrire le pene di Cristo in croce? Perché? Perché non muore? Antonello
Sulla sofferenza la risposta. Ma Tu non sapevi come noi non sappiamo. E compatta ancora sale sul mondo la Notte. David Maria Turoldo Antonello, tu dici «perché non muore?», ma io vorrei chiedere al Signore piuttosto «perché non vive?» con le gioie e i dolori di tutti, tutta una vita intera, come forse ha sperato e sognato lui e come sicuramente hanno sognato i suoi, sempre... Cristo in croce ha anche scelto di salire in croce, quando ha cacciato il tentatore, ma che cosa ha scelto Federico? E allora io non capisco più niente e non ho mai capito niente, e credo che il dolore non abbia nessun senso ma che l’unica strada perché un senso ci sia è che ci sia il Signore che gli chiede scusa (non so come) e gli dà per sempre tutto quello a cui lui aveva diritto. Anche a sua mamma. Susanna Carissimo Antonello, possiamo sfuggire a certe domande? Possiamo pensare di avere una qualche risposta? Fosse anche solo un balbettio? Morire nel pieno sbocciare della vita e morire nell’agonia di un dolore che non finisce, può trovare altra parola dal «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Non il Dio della fede soltanto, ma il Dio come istanza di vita, di speranza, di amore, quel Dio che può anche essere l’aiuto dell’altro, del sapere medico, dell’affetto familiare, dell’amicizia. Tutti atti umani, aperti al trascendente, che, sanno e si sa, non possono compiere il miracolo, ma vorrebbero, che almeno desiderano alleviare, ma sono travolti nell’impotenza e nello strazio. Il dolore, questo dolore, è incomponibile e incontenibile, dilaga fino a che la morte, come quiete e fine, orribilmente ma anche pietosamente, non viene. È dolore che mette in fuga e che travolge chi lo avvicina, fino al punto da far temere di aggravarlo con la stessa pietà, con lo stesso farsene osservatori, con lo stesso sguardo e lo stesso eloquente silenzio. È il dolore che temiamo per noi e per gli altri. A cui mai vorremmo assistere; con cui mai vorremmo avere parte. Il dolore sfiorato dai tragici nel Filottete e nell’Edipo a Colono, dai sapienti in Giobbe. Sfiorato, perchè se può essere tradotto in parole, messo in scena per l’umana riflessione e catarsi, non è già più il dolore puro, il pugno nello stomaco, del morente che soffre e a cui nulla si può dire. Salvezza da questo dolore non c’è, per chi lo vive e per chi lo condivide. Sommessamente pregare, di nascosto, è una contraddizione oltre che una finta consolazione. Tutta la nostra vita è fatta da contraddizioni e da finte consolazioni. Lasciarci attraversare dallo strazio e poi fingere che sia passato, che stia lontano da noi, ci permette di continuare a vivere, fino a che lo strazio si ferma, direttamente in e su di noi o nelle persone che amiamo più di noi stessi. Tutto allora diventa lontano: l’amico, il familiare, Dio. Lontano come potere consolatorio. Vicino come straziato con noi e in noi. Se mai si darà salvezza, non è salvezza dal dolore, ma del dolore e di noi con esso: uomini del dolore, portatori di stigmate e ferite fin nel cuore del redentore abbandonato e redento. Caro Antonello, sono parole, nate da una comune ferita. Non consolano e non aiutano. Tentano di dire il soffrire per non nasconderlo. Non passano e non dimenticano, accompagnano ogni giorno della vita e della morte. Aldo (qualche ora dopo) Caro Antonello, tra un’attività e l’altra della giornata le pagine scritte da te e da me sulla sofferenza di Federico hanno continuato a girarmi per il capo e a prendere forma di parola. Come tutte le mie cose in proposito sono parole apparentemente disperate, ma così non è. Come altra volta ti ho detto e scritto, infatti, noi non possiamo davvero seriamente sperare se non ciò di cui disperiamo. Se la solitudine è il passo decisivo del soffrire verso l’inferno, la compagnia (ma dire non si può senza volgarizzarla e svilirne il senso) è almeno un passo in direzione opposta. Il dolore tende a isolare coloro che ferisce, tende a rompere ogni loro legame vitale col mondo, coi loro progetti, che sono fatti di relazione. Circondare il sofferente di compagnia e di presenze amiche, non curiose, non soffocanti, non indottrinanti, ma disponibili, lo aiuta a non precipitare nell’ossessione del patire che macera se stesso, nell’incubo del pozzo da cui non si vedono uscite, neanche l’uscita della morte. Tutto ciò quando è ancora possibile, quando la coscienza ha ancora un minimo di luce. Se si chiude la botola e si spezza la possibilità del comunicare, non sappiamo più cosa accade. Speriamo che con la coscienza se ne sia andato anche il dolore, ma non ne abbiamo certezza. Al dubbio che possa non essere così, che il dolore solo resti come unica esperienza di vita, non c’è parola che tiene e dia una qualche attendibile voce al «De profundis». Solo l’Altro, solo l’Ignoto, solo il divino Nulla turoldeo, se possibile e non impassibile, può articolare e ricevere il rantolo come invocazione, può dare voce e accogliere il grido di chi, come il Crocefisso, gridando, più non sa di gridare. Se non è questo la «grazia», cosa mai altro può essere? Aldo 24 febbraio 2005 Federico è morto oggi. Antonello 25 febbraio 2005 Qualcuno direbbe «liberazione»... ed è vero che quando li guardi torturati soffrire speri solo che la loro sofferenza sia breve. Ma poi il dolore è assoluto e l’aver sperato che la sofferenza fosse abbreviata sembra una follia e una colpa. Paola Un caro saluto a te e a lui. L’uomo dei dolori ha infinite incarnazioni. Che quella detta «il Cristo di Dio», tutte le accompagni e le consoli. Aldo Prof, ancora non ci voglio credere, ma è così e l’impotenza mi fa ancor più rabbia. Spero che stasera venga al rosario. Questo è tutto ciò che sono in grado di dire. Emanuele Caro Ema, stasera purtroppo non ho potuto esserci al rosario, ma domani ci sono... ...forse per te, o per alcuni di voi è la prima volta che vi tocca qualcosa di doloroso così da vicino... rende muti e poi però, non so a te, mi dà subito una scossa fortissima a fare ogni giorno tutto quello che posso, pochissimo, ovviamente, per vivere pienamente... ...oggi ho parlato di Federico ai primini dell’altra scuola; gli ho raccontato dei disegni che faceva delle ville e del fatto che si lamentava che all’ospedale facevano troppo poco di latino... mi viene il sorriso sulle labbra, tu capisci perché, mi viene in mente che una volta sono entrato in camera disobbedendo alla madre e anche alla collega che mi aveva consigliato di non entrare ma parlargli da fuori... lo sai che io sono un po’ testone... combinazione ero solo, abbiamo parlato liberamente, forse lui era un po’ imbarazzato a parlare a un prof: non ci conoscevamo neanche! io ero suo prof solo sulla carta... In questi giorni mi viene in mente la sua faccia e poi però non riesco a fissarla nella memoria... e poi io non so neanche che faccia avesse prima, certo era un’altra, l’ho visto nell’annuario.. . ...ma anche a me, non credere, lascia ammutolito... ...mi sento legatissimo alla vostra classe, non so neanche perché... l’idea di perdere qualcuno mi fa paura e anche rabbia... ...penso che di tutto questo, di là, Qualcuno dovrà rendere conto: è più Lui che deve farlo che noi, che uno che ha sofferto in modo insensato come Federico... Antonello |