A SESSANT’ANNI DALLA LIBERAZIONE |
E vogliono chiamarli |
Il disegno di legge presentato da Alleanza Nazionale concentra in due articoli i tratti tipici del fascismo di sempre, originale o neo- o post-: ipocrisia, scherno, ignoranza, incoerenza. Ipocrisia. Il fascismo, portato al potere nel 1922 dall’alleanza tra agrari e industriali e dal benevolo assenso della monarchia, ventun anni dopo si scopre repubblicano e anticapitalista, proclama, nella Carta di Verona, leggi di socializzazione delle fabbriche e condanna come traditori Vittorio Emanuele e Badoglio, con i quali aveva fatto buoni affari fino alla sera prima. Oggi Fini e Gasparri, per farsi belli e democratici, si fanno fotografare ad Auschwitz e a Yad Vashem. Compunti, con la kippà in capo, piangono sulla memoria dei deportati e pronunciano giudizi definitivi sul fascismo «male assoluto». Poi a Roma dirigono un partito che esige un riconoscimento morale per coloro che agirono per il male assoluto e arrestarono i deportandi. Scherno. A Novara si ricorda ancora quando nel 1944 i fascisti fucilarono dei partigiani nel centro della città. Dopo l’esecuzione, le ausiliarie della Rsi si divertivano a infilare delle sigarette in bocca ai cadaveri, sghignazzando «Adesso fattela accendere da Moscatelli». Ventotto anni dopo, Almirante, il maestro di Fini, tentò di fare un comizio sulla piazza dei Martiri, dandone l’annuncio con manifesti in cui, per un «errore di stampa», si parlava di «Piazza Martini». Oggi, mentre l’Italia celebra i sessant’anni dalla Liberazione, i fascisti vogliono sghignazzare e guastare la festa, proponendo di equiparare combattenti per la libertà e contro la libertà. Ignoranza. I proponenti non sanno che ben pochi repubblichini poterono soddisfare la loro ansia di combattere per difendere il sacro suolo della Patria. Incoerenza. La relazione è fondata integralmente su una sentenza del 1954 con cui il Tribunale supremo militare riconobbe lo status di combattenti ai militi di Salò, negandolo ai partigiani, perché solo i primi ottemperavano alle condizioni di In ricercati termini giuridici, era quello che i tedeschi dicevano più chiaramente con i cartelli «Achtung! Bandengebiet!». Sentenza ridicola, ma comunque sentenza. Quindi i senatori di An proponenti dovevano, per coerenza, non solo chiedere lo status di combattenti per i militi della Rsi, ma la revoca dello status già riconosciuto ai «banditi». Quale pacificazione L’esercito di Salò La repubblica di Salò non ebbe mai un proprio esercito, poiché non era uno stato sovrano. Il capo dello stato lo era perché insediato dai tedeschi che lo avevano prelevato al Gran Sasso. Il territorio dello stato coincideva con la zona occupata dai tedeschi, a eccezione di vaste aree di sacro suolo della Patria sottoposte al Reich, senza la più timida protesta fascista: i territori del Voralpenland e Künstenland (da Bolzano a Pola). Lo stato di Salò esisteva solo perché il Reich aveva bisogno di un potere locale subordinato, con la sola funzione di interpretare ed eseguire i suoi ordini. «Mi sembrava prematuro creare un vero e proprio Stato di diritto nella pienezza di tutti i suoi istituti, quando non c’erano Forze Armate che lo sostenessero. Uno Stato che non dispone di Forze Armate è tutto, fuorché uno Stato»: parole di Benito Mussolini, discorso al Lirico di Milano, 16 dicembre 1944. Quindi, per giustificare l’esistenza di uno Stato, occorrevano le Forze Armate. Il maresciallo d’Italia Graziani ebbe l’incarico di costituirle. Generali e alti ufficiali vennero convinti con lauti stipendi. Per la truppa semplice, si cercò di vincere le esitazioni di fronte alla leva obbligatoria con decreti e bandi che garantivano la fucilazione alla schiena per i renitenti. Uno di questi bandi fu diffuso nel 1944 in provincia di Grosseto: portava la firma di Giorgio Almirante (sempre lui, il padre spirituale di Fini e Gasparri). Furono ricostituite quattro divisioni del Regio Esercito (San Marco, Monterosa, Littorio, Italia) e reparti di Marina e Aeronautica. A questi si aggiungevano la Gnr (Guardia Nazionale Repubblicana), le Brigate Nere (risultato della militarizzazione, nel giugno 1944, del partito fascista), la Decima Mas (autocostituitasi a La Spezia già al 9 settembre 1943), il Servizio Ausiliario Femminile, la legione Muti, le Ss italiane. Un panorama variegato nel grado di politicizzazione e di autonomia dai tedeschi e dalla stessa Rsi. Junio Valerio Borghese vantò sempre la sua indipendenza, se non ostilità, dall’apparato fascista e dai tedeschi. Le Ss italiane non prestavano giuramento alla Rsi ma a Hitler. La Muti si denominava «Legione autonoma mobile Ettore Muti». Che le Forze Armate di Salò non fossero un blocco monolitico è confermato dallo stesso Duce che le comandava: «Nel periodo tumultuoso di transizione dell’autunno e inverno 1943 sorsero complessi militari più o meno autonomi. E fu ottima iniziativa, soprattutto morale. Ma la guerra moderna impone l’unità» (discorso al Lirico). Non sappiamo se la proposta An intende annoverare tra i combattenti anche le bande di torturatori (Carità, Koch, Collotti). Questi, formalmente appartenenti alle Ss italiane, operavano per i nazifascisti, pur in autonomia, potendo così essere sconfessati dal governo ufficiale. Combattenti? Le quattro divisioni e parte della Decima Mas furono addestrate in Germania da ufficiali tedeschi, con qualche difficoltà nei rapporti, come dimostra la testimonianza di un reduce della San Marco: «In questo periodo iniziale di un mese purtroppo la convivenza dei militari italiani con quelli germanici non fu delle migliori. Varie le ragioni: differenza di razza, abitudini, cultura; ricordi sgradevoli del periodo di internamento, differenze dell’intendere e praticare i molteplici aspetti della vita militare. Concezione del Dovere dissimile, scarsa fiducia (ancorché inespressa) dei tedeschi negli italiani». Al termine dell’addestramento le divisioni rientravano in Italia, ansiose di fronteggiare il nemico. Continua la stessa fonte, «due soli Battaglioni, però, ebbero la ventura di recarsi sulla Linea Gotica. Il resto della Divisione rimase a controllare le grandi vie di rifornimento per il Fronte e fu suo malgrado invischiato nelle maglie della lotta contro i partigiani». Fu una estrema minoranza quella parte delle truppe di Salò che combatté, agli ordini dei tedeschi, contro gli alleati. Tutti gli altri furono «loro malgrado» impiegati contro i partigiani, il che implicò innumerevoli rappresaglie sulla popolazione civile. Nel disprezzo e nella diffidenza dei tedeschi, i repubblichini erano accomunati alle Osttruppen, manovali dello sterminio che i tedeschi, dopo averli catturati e riarruolati all’est, dispersero in tutta Europa: russi (della cui presenza a Cuneo narra Nuto Revelli), cosacchi (che la Carnia ricorda con terrore), ex-sovietici della Russia asiatica in cui i popoli occupati videro subito «i mongoli». Conosciamo i campi di battaglia dei combattenti di Salò: Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fucecchio, Lanciano... un elenco sconfinato. Conosciamo i loro quartieri generali: Villa Triste a Firenze, la Casa dello Studente a Genova, via Rovello a Milano, via Asti a Torino, la pensione Jaccarino a Roma. Conosciamo le loro gesta di combattenti: nell’ottobre del 1944, Emilio Da Ponte, catturato dalla Decima Mas, fu trasportato a Palmanova, nella caserma «Piave». Lo seviziarono a lungo, ma non una parola uscì dalle sue labbra. Inferociti dal suo silenzio, i militari fascisti riservarono al commissario partigiano una morte atroce: lo legarono mani e piedi a due cavalli da tiro e poi fecero partire gli animali in direzione opposta, squartandolo. Conosciamo le motivazioni del loro valore di combattenti: sono le motivazioni delle sentenze del dopoguerra nei processi a loro carico. Il 28.8.1952 il tribunale militare territoriale di Milano emette una sentenza contro militi della legione «Tagliamento» della Gnr, operante in Valsesia. Nella sentenza si legge, a proposito di una delle loro vittime: «Fu catturato di notte e portato alla caserma della Tagliamento. Fu sottoposto a sevizie per costringerlo a rivelare i particolari dell’organizzazione. Le sevizie consistevano in violente fustigazioni con nerbo di bue sulla schiena, in percosse con calcio della pistola alla faccia e alla testa ed in escavazione del palmo della mano con un coltello acuminato». La conclusione è evidente: l’attività prevalente dei militi della Rsi fu la repressione antipartigiana, in minima parte il combattimento contro l’avanzata alleata. In entrambi i casi, tutto avveniva agli ordini delle forze di occupazione tedesca. A coloro che «straziarono con lo sterminio i borghi inermi» non spetta alcuna qualifica di combattente. I pochi che realmente combatterono nella Rsi sotto il comando tedesco possono chiedere un riconoscimento solo a uno Stato erede dei loro comandanti. Non certo alla Repubblica italiana sorta dalla dissoluzione del nazifascismo. Gianfranco Accattino
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