Editoriale |
Nicola Calipari era un servitore dello Stato caduto per difendere una comunista che è anche contro questo governo» («l’Unità», 8 marzo). Questo giudizio di Domenico Gramazio, di An, presidente della sanità pubblica del Lazio (a parte la discutibile solita espressione «servitore dello stato») coglie bene la realtà eccezionale dei fatti del 4 marzo 2005: l’Italia si è unita nella difesa di una vita, pagata da un’altra vita. Il riscatto non solo della vita e libertà di Giuliana Sgrena, ma del senso civile d’Italia lo ha pagato Nicola Calipari, altro che i sei o otto milioni di euro! Il nostro paese si è unito per un momento, salvo le immediate successive divisioni, ma ci sono momenti che valgono anni, che contengono verità. Compiangiamo Calipari, ma non commiseriamolo: forse è questa la morte migliore, con un senso attivo, un atto di vita (come fu per il giovane Filippo Piredda, un caso analogo a Torino, nel 1997), nel fare un’azione umana giusta, una morte sfuggita forse al degrado fisico, a una interminabile agonia, oggi la sorte di tanti. La pena maggiore è per i familiari e gli amici, per lo strappo improvviso, non per chi muore. Nella morte istintivamente generosa di Calipari c’è vita. Un segno di vita particolarmente prezioso e promettente là dove regna la guerra. Perché la guerra è morte, è scelta della morte, è fornicazione adulterina con la morte, per tradire la vita e partorire altra morte. È dare la morte, aggiungere morte, che sempre dilaga e ritorna su chi crede di poterla usare contro altri. La guerra è tradimento e follia. La politica di guerra è alto tradimento, è sovversione contro il patto civile, cioè dissolvimento della convivenza civile, ricaduta nella barbarie. Non è mai davvero contro un nemico, ma è fare nemica l’umanità, dunque farsi nemici dell’umanità. Non c’è guerra tollerabile. La guerra non vale contro la guerra, contro la violenza e il terrorismo, perché può solamente imitare, riprodurre e moltiplicare questi orrori, come oggi vediamo fino a sentirci schiacciati dall’evidenza. Scoprire un uomo onesto, mite, umano, capace, deciso e discreto, nel braccio armato e segreto dello stato, strumento di azioni incontrollabili, fa riflettere una volta di più sulla distinzione tra persone e strutture, anche quando resta il problema delle strutture. Nelle quali, in questo e simili casi, la segretezza è discrezione necessaria alla delicatezza dell’operazione, ma resta pericolosa e deprecabile come carattere di un’istituzione denominata appunto segreta. Non eroicizziamo Calipari. È giustissimo esaltarne la qualità, l’azione compiuta come atto supremo del suo lavoro. Ma se la celebrazione dell’uomo generoso sconfina nella retorica, tace sulle cause e sul contesto, mette in ombra il contesto della guerra, che strappa la vita a chi non vuole, e costringe al sacrificio una persona di valore. Beato il popolo che non ha bisogno di eroi. Beata quella giornata sulla terra che non costringe nessuno all’eroismo. Maledette le guerre che uccidono, anche se risvegliano alte qualità umane, contro l’uccidere. Non militarizziamo – retorica deformante – un’azione umana per nulla militare, anche quando la compie un militare. La difesa – difesa del diritto e non del dominio – può avere ancora, temporaneamente, a questo grado intermedio di evoluzione umana, bisogno delle armi: lo ammettono quei patti giusti e saggi, aperti al futuro, che sono la Costituzione italiana e la Carta dell’Onu, ma solo se immediatamente l’aggredito rimette la contesa al diritto internazionale e alle sue istituzioni (art. 51 Carta dell’Onu). Resistere alla guerra che ci aggredisce non è fare guerra. La guerra merita il tradimento. Il patto criminale di guerra deve essere tradito. Gloria d’Italia è l’8 settembre, quando tradimmo (tardivamente, costretti dai fatti) il patto criminale con Hitler. Anche oggi siamo implicati in una guerra criminale, che ci vomita addosso tutti i suoi frutti mortali. È l’ora di tradire quel patto. Se il popolo iracheno chiede un aiuto internazionale, chiede tutt’altra presenza. Si discute se è giusto e conveniente pagare il riscatto per i sequestrati. Altri paesi lo escludono, per non riconoscere e finanziare gli autori della violenza. Sul caso Moro, propendevo con incertezza per la tragica fermezza. Ora penso che i sequestrati vanno sempre riscattati, anche con denaro: lo stato è per il cittadino, e non viceversa. Non si può sacrificare una vita a un obiettivo politico e a una struttura generale. Uno può accettare di morire per tutti, ma non è accettabile che uno venga fatto morire per tutti. Si affrontino e si riparino i danni politici, già compensati dal grande frutto civile del far valere l’uomo più del sabato. Nacquero ordini religiosi dediti a riscattare i prigionieri fatti schiavi dai pirati: oggi è una funzione dello stato. Sul piano contabile, le spese di guerra sono infinitamente superiori. È più onorevole pagare il nemico che ridursi a imitarne la violenza. Agli Stati Uniti l’Italia deve chiedere severamente conto, non accontentarsi di formalità. Dagli Stati Uniti la comunità internazionale deve esigere con nuova insistenza che accettino la Corte penale internazionale, se vogliono provare di essere un paese all’altezza dell’evoluzione civile. Si apprende (Gr1) che, da dicembre, su quella via dell’aeroporto, sei auto occidentali sono state colpite (degli iracheni nessuno tiene il conto). Come la guerra in corso è preventiva, così il tiro preventivo è nelle regole dei soldati Usa in Iraq. Il direttore della Cnn è stato licenziato perché ha detto a Davos che i militari Usa hanno sparato a dei giornalisti. Giuliana Sgrena ha diritto di parlare, perché è il suo lavoro per noi tutti, perché lo ha pagato con la prigionia, perché troppo pochi parlano. Se alcuni suoi giudizi, turbati dall’esperienza patita, fossero da correggere, si correggeranno. Ma la sua è la testimonianza di chi è stato attraversato dalla guerra, come la sua spalla dalla pallottola che ha ucciso Calipari; ferita da quella guerra che è andata a smascherare nella sua oscena nudità. Giuliana è viva per dare voce ai morti, perché è stata rapita nel tentativo di raccogliere le voci delle vittime di Falluja, che ancora devono parlare. Il 4 marzo 2005 è un’immagine concentrata della violenza eretta a istituzione nella guerra, nuovo orrendo lager senza confini di sfruttamento e schiacciamento dei corpi umani. Ci sono sommersi e salvati, ci sono gli estremi dell’offesa e della dignità. Giuliana Sgrena è stata salvata da Nicola Calipari, sommerso. Quella salvezza è stata derubata del diritto a gioire dal mare di violenza che è la guerra, che ha inghiottito Calipari, il liberatore. e.p. |