CINEMA |
La boxe, metafora del vivere |
Per valutare un film bisognerebbe vederlo, darne una prima lettura e poi rivederlo per farsela smontare. Ma non è così che esso si fa strada e resta nell’esperienza dello spettatore comune, che assiste allo spettacolo una sola volta e poi corre via, ritornando, se ci ritorna, su quanto gli è rimasto impigliato nella rete di pensieri, che quotidianamente lo lavorano. Ecco come tenterò di dire la mia su Million dollar baby e sul suo canto di lutto per una vita che il gelo brucia al suo primo fiorire. Mi affiderò ai suoni e alle immagini che l’occhio ha colto e l’orecchio fissato, senza ricordare quale dei due introduca l’altro al racconto, se la parola o le cose: se le vie e gli edifici fatiscenti della periferia cittadina, se i locali e gli arredi polverosi della palestra, o la voce fuori-campo del coro ad una sola voce dell’evangelista nero che racconta e commenta la tragedia e la passione dell’allenatore bianco e della «figlia adottiva», della «molto amata» e «prediletta», della mai abbandonata, ma accompagnata nell’abisso della morte. Sì, perché Dio sa tutto del dolore, ma l’uomo ne sa di più. Dio sa per sentito dire e «forse» perché in comunione di affetti col Crocefisso, ma l’uomo sa per sapere della carne, per impasto diretto e inestricabile col soffrire e col morire. Dio può, se vuole, ascoltare il grido dell’uomo e rispondere illuminandolo col fuoco del roveto che non consuma. L’uomo non può, anche se vuole, non essere consumato dal fuoco, liberarsi dalle spine del roveto, ricevere qualcosa di più di un pallido riflesso di quella luce. Nel film anche questo riflesso manca, nonostante la visita quotidiana al prete e alla chiesa, perché è un film lento, cupo e per nulla edificante, che certo farebbe ripetere a Monsignore quanto mi disse un giorno al racconto della vita di Cristo: «Una storia così triste e senza costrutto non mi è mai capitato di sentirla». Ci sono le lacrime delle cose e ci sono le lacrime delle persone. Ci sono, anche se nessuno piange o si lamenta per i pugni, per la fatica, per il sangue versato, per la colonna vertebrale frantumata. È la realtà che piange, anche quando è realtà di vittoria, gioia per la riuscita, applauso di folle e fiume di denaro. La palestra, scena di fondo dell’intero spettacolo, col suo carico di fatiche e fallimenti, cantiere di vari, mai veramente riusciti, è sempre là a ricordarcelo: oltre la fatica della preparazione, oltre l’inseguimento della propria identità, oltre la familiarità reciproca, che la pietà umana dei semplici può, ma non sempre, costruire, c’è il mare aperto del mondo, che è un mondo assassino, il mondo dominato dal demone della vittoria, che mentre si riserva il riconoscimento del successo anche se ne riserva il controllo, così che i «puri di cuore» gli vengano sacrificati. L’allenatore bianco, vecchio, stanco e disilluso, che legge un gaelico che sa di greco antico e d’ebraico, lo ha capito e per questo allena e prepara, costruisce uomini e una donna perché siano se stessi, campioni nel loro genere di vita, ma tenta di trattenerli dall’entrare nell’agone della vita non protetta, nella lotta di tutti contro tutti. Qui sopravvivono solo i potenziali assassini, che è illusorio combattere, senza convinzione e senza cuore di tenebra, con le loro stesse armi. La vita li ha pestati al punto da farne dei satana. Sanno che sotto la cresta dell’onda c’è soltanto l’acqua che affoga. E accanto agli assassini ci sono gli arresi, incoscienti di sé, che demoliscono ciò che tenta di costruirsi e reggere. Lo demoliscono per galleggiare sui suoi rottami. Senza arrivismo a tutti i costi e senza consumismo sfrenato, il mondo ti rifiuta e ti calpesta, come la boxe maciulla chi la pratica per desiderio di esistere e di essere riconosciuto e la famiglia schiaccia chi ama disarmato. È in questo mare che tentano di navigare i protagonisti del film e che vengono prima travolti da chi è più forte di loro, e poi soffocati da chi è più debole. La boxe è metafora ed è metafora la palestra. Rappresentano il mondo del degrado umano e l’unico spazio di vita offerto agli ultimi, l’unica loro possibilità di emergere e di mettersi alla prova. Nella boxe e nei suoi spazi fisici ed umani c’è tutto: il bene e il male, la possibilità di incontrarsi e riconoscersi, di praticare la reciproca pietà e arrendersi all’odio e alla rivalità mortale, alla violenza gratuita, da diseredato a diseredato. Il film mette in scena la violenza, ma dà voce interpretante alla pietà, attraverso la parola del narratore nero, che costruisce un rapporto di singolare paternità col giovane abbandonato al suo delirio di welter, e attraverso la tragedia dell’allenatore bianco, che insegue per tutta la vita la riconciliazione col proprio passato, che è oppresso da un peccato oscuro nei confronti della figlia e da un fantasma di colpa nei confronti dell’amico semicieco, che vive rovesciata l’esperienza kafkiana della lettera mai esitata. Là l’attesa inappagata del messaggio-missione dell’Imperatore, qui il rifiuto ripetuto dell’invisibile figlia di ricevere la richiesta di perdono. Infine la via di salvezza, offerta dall’incontro con la giovane campionessa di boxe, che a poco a poco diventa la nuova figlia, la figlia a cui tutto si può finalmente dare, compresa la momentanea, ma piena, realizzazione di se stessa, compreso l’accompagnamento nella morte, compresa la sfida dell’abisso di perdizione per amore. Ci sono le lacrime delle cose e delle persone, che non piangono. C’è il mare tempestoso del mondo da cui il ventre della palestra, inconsolabile Rachele, non ti può difendere. C’è l’attesa paziente del ritorno impossibile di ciascuno all’ordine e alla pace dolente e cupa del vivere di sempre. E c’è, ma la evoca la mia lettura del film, non il film che chiude con la fine della Passione, la promessa di lacrime asciugate. C’è la speranza di una luce che cancella il lutto e inabissa il mare in luogo delle sue vittime. Aldo Bodrato |