TEOLOGIA IN RICERCA / 2
La promessa irrealizzabile


Una attenta lettura della Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse, non può che insegnare la problematicità della storia profana dell’uomo e di quella sacra di Dio. Inoltre una fede che parla di rivelazione nella storia e di dimensione temporale della salvezza deve fare i conti con la storicità della rivelazione e con la valorizzazione salvifica del tempo, non solo quello biblico, ma anche quello post-biblico. Una battaglia decisiva, combattuta e vinta nella persona di Gesù crocefisso e risorto, dopo duemila anni e con un cumulo di tradimenti, di delusioni, di rovine e di morti, infinitamente più ingombrante del Golgota, non offre più nessuna ragionevole garanzia di vittoria.

Se fede ha da essere, non deve solo tenere conto della passione e della croce, come segno della kenotica presenza salvifica di Dio nel mondo, oltre che della promessa di resurrezione. Essa deve confrontarsi con la necessità di dare significato teologico e salvifico al protrarsi senza fine della permanenza di tutti gli uomini, credenti e no, nella non-salvezza, dopo che la salvezza è stata annunciata come realizzata e imminente con tanto clamore e convinzione da tempo immemorabile.

Dalla gola del leone

C’è chi considera Sergio Quinzio il profeta del più nero pessimismo, un teologo «fuori da ogni grazia e da ogni ordinato e ragionevole pensare teologico». In verità Quinzio ha ragione da vendere quando, in Dalla gola del leone (Adelphi 1980), sostiene che «bisogna porre al centro dell’annuncio cristiano il supremo mistero dal suo fallimento» (p. 35) e si chiede e ci chiede: «Che senso hanno questi venti secoli trascorsi, dopo la redenzione, ancora nella morte e nell’obbrobrio, se non quello di una chenosi più profonda della stessa croce, la chenosi dell’oblio bimillenario?» (p. 19).

C’è più fede e più speranza nelle sue spregiudicate denunce sulle conseguenze teologiche di duemila anni di tradimento dei vangeli da parte della chiesa, che in tante compunte richieste di perdono, che mirano soltanto a liberarsi da un passato con cui non si è mai voluto e non si vuole fare i conti.

«Oltre la croce», Quinzio scrive, «c’è il perdere anche quest’ultima partecipazione al ben che è soffrire perdendolo. Sono certo che questa più che crocefissione, questa perdita-oblio del dolore del Signore, è il senso di questi venti secoli. Non è solo il Signore che muore sulla croce, ma è la sua parola che muore nella storia, fino alla più completa cancellazione» (p. 20).

D’altra parte questo processo di umiliazione e di indebolimento della potenza salvifica di Dio, non viene in luce solo per il prolungarsi del ritardo della parousia. Esso inizia con la rivelazione stessa, che è redazionalmente ordinata nella Bibbia secondo una successione di testi che sembrano suggerire una storia di Dio. Una storia in cui Dio passa dalla creazione del mondo alla liberazione di un popolo di schiavi, dal rimpatrio di un «piccolo resto» dall’esilio babilonese alla resurrezione di un unico Crocefisso. E, se è vero che a questo decrescere di potenza si accompagna il crescere nella pietà, che «il tardare della salvezza obbliga il Signore a creare una consolazione sempre più grande, più piena di tenerezza» (p. 17), è vero anche che nulla gli garantisce che tale amore impotente trovi la via all’efficacia salvifica grazie alla corrispondente risposta dell’uomo. Così che è possibile concludere: «Dopo duemila anni che tace, è venuto davvero il momento di credere fino in fondo nella morte del Signore, cioè nell’umiliazione della sua potenza, di amarlo anche se non potesse mai più salvarci: il momento non più di adorarlo per la sua potenza ma di amarlo per la sua umiliata e impotente pietà» (p. 39).

Possiamo dire che «tutto questo è l’anticamera della mancanza di fede, l’ultimo rantolo di un processo che non può che portare alla fine della speranza»? In verità è, forse, l’ultimo possibile grido consentito alla fede, l’ultima possibile forma di speranza: mettere in scena la fede alle prese con la sfida ultima e la speranza con le ragioni della disperazione: credere ciò che è supremo scandalo per la ragione e per la religione e sperare contro ogni speranza (I Cor 1,23; Rm 4,18).

Che cosa, disperati, speriamo?

Quale speranza, allora, e per quale salvezza? Che cosa disperati speriamo? Prendiamo sul serio le parole della fede! Confessare di non credere nell’esistenza di un paradiso di puri spiriti, che eternamente cantano le lodi di un Dio, che per sentirsi lodare li avrebbe creati, non ha nulla a che fare con la disperazione. Chi dispererebbe di una tale vacuità?

La speranza legata ad una «salvezza povera», ad una salvezza chenotica, che Quinzio esemplifica con l’immagine del pastore che delle sue pecore salva, dalla bocca del leone, «non più di due zampe e un brandello d’orecchie» (Am 3,12), non può che essere «il compimento di una concezione della salvezza come ebraica pienezza di vita terrena e, insieme, come cristiana trasfigurazione spirituale» (p.163). Di questo solo si può dare disperata speranza: del riscatto dei morti dalla morte, dei corpi dalla malatia e dal dolore, dello spirito dal peccato e dall’angoscia, dei sofferenti dalle sofferenze, dei perseguitati dalle persecuzioni, della creazione da tutto ciò che la sfigura e a tal punto prolunga per lei «i dolori del parto» da farle temere che quanto da essa nascerà, «quando si riveleranno i figli di Dio» (Rm 8,19), non sarà «cieli e terre nuove» (Is 65,17), ma cieli vuoti e terre morte da tempo.

«Fondata sulla resurrezione di un Cristo, sfigurato dalle piaghe della passione, la speranza cristiana di futuro è, nel suo nucleo, speranza di resurrezione. Se non c’è speranza per il passato non c’è nemmeno speranza per il futuro, perché ciò che diviene è destinato a passare, ciò che nasce un giorno morirà, e quello che ancora non c’è un giorno non ci sarà. La speranza della resurrezione non è orientata verso un futuro nella storia, bensì verso il futuro della storia e della natura. Qualificare il futuro della storia con la resurrezione dei morti significa incontrare in essa anche il nostro passato: i morti di fame e di guerra, i desparecidos, i morti di Auschwitz e di Hiroshima, delle torri gemelle e delle “guerre preventive”, scatenate per vendicarli» (J. Moltmann, «Avvenire» 12-4-03).

La melanconia dell’angelo

Moltmann dice bene. Ma Moltmann anche inquadra queste sue parole tra l’immagine profetica della «pianura di ossa che riprenderanno carne» (Ez 37) e quella poetica dell’intellettuale ebreo Benjamin che, esule e disperato, così interpreta un disegno di Klee a lui carissimo: «C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine sale davanti al cielo» (Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi 1962, pp. 76-77).

Gershon Sholem, amico di Benjamin e studioso della mistica ebraica, commenta: «Tutto ciò che è storia e che non è redento, ha per sua natura carattere provvisorio e frammentario. L’angelo di Benjamin conosce il proprio compito: destare i morti e ricomporre l’infranto, ma fallisce in tale missione. L’Angelo è dunque qui una figura melanconica che naufraga nell’immanenza della storia» e non incoraggia l’attesa del Messia, che “in ogni attimo può irrompare” e in ogni attimo, attimo su attimo, può consumare l’attesa» (Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi 1978, pp. 62-63).

Quello che l’antico profeta afferma essere nelle possibilità dell’agire storico-salvifico di Dio (ridestare i morti), il filosofo-poeta, giunto alle soglie della Shoà, vede ormai come un compito impossibile ad ogni celeste inviato. L’Angelo della storia, il volto di Dio rivolto alla storia, vorrebbe salvare ciò che la storia col suo passare travolge, vale a dire la storia stessa, gli uomini nel loro destino, ma non può e contempla esterrefatto il cumulo delle rovine salire al cielo, non riconciliato e non ricomposto, ma infranto.

Se noi disperiamo della piena e compiuta salvezza, l’angelo di Dio, Dio, come storico salvatore, dispera con noi. Noi disperiamo della sua stessa disperazione. La nostra disperazione, se è disperazione della salvezza promessa e della promessa resurrezione, è disperazione teologica e teologica virtù.

«L’ineseguibilità di ciò che è rivelato è il punto in cui si incontrano, anzi coincidono, una teologia, rettamente intesa, e quanto ci fornisce la chiave per accedere alla comprensione profonda del nostro essere nel mondo. No, cari amici, il nostro problema non è l’assenza della rivelazione, ma la sua ineseguibilità» (Benjamin e Scholem, Teologia e utopia, Einaudi 1987, pp.146-47, lettera di Scholem del 17-7-34).

Aldo Bodrato


 
 
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