NEL 25° DELL’ASSASSINIO DI MONS. ROMERO |
Un vescovo cristiano |
Il primo Romero Era stato nominato vescovo di Salvador dietro pressioni della oligarchia, perché conosciuto come conservatore e legato all’Opus Dei. La sua nomina infatti destò vive preoccupazioni nei settori progressisti della diocesi. Egli dissentiva aggressivamente dalla teologia della liberazione accusandola di orizzontalismo, marxismo, e di deviazione “politica” dalla missione della Chiesa. Per questo egli era ostile ai gesuiti, alla loro teologia che a suo parere conduceva alla rivoluzione e all’odio di classe; per queste ragioni divergeva anche dalla linea di p. Grande, che pure stimava personalmente, tanto da costituire per lui un problema. Si adoperò, con gli altri vescovi, perché i gesuiti fossero allontanati dalla direzione del seminario. Avallò la militarizzazione dell’università, considerata un luogo di sovversione, con relativa repressione. Avvenne però la suddetta svolta come scelta dei poveri, la cosiddetta opzione preferenziale per i poveri, ma non come dettaglio secondario ad libitum del cristianesimo, bensì come cuore della fede cristiana. Del suo passato egli chiese perdono a una comunità di base: «io, prima, non capivo ». Per fedeltà ai poveri egli dovette affrontare l’ostilità e l’incomprensione dell’oligarchia, del governo, dell’esercito, della maggioranza dei vescovi, dei dicasteri romani (in particolare del card. Baggio) e della nunziatura (abbiamo preso tutte queste notizie dall’articolo di G. Girardi, Monsignor Romero e la teologia della liberazione, scritto appositamente per Adista del 19/3/05). La congregazione vaticana non si è dunque “sbagliata” nominando vescovo Romero, solo che non ha previsto la sua “conversione». La conversione al Vangelo Essa è consistita nel cambio radicale dell’identità cristiana, definita non più dall’appartenenza all’istituzione ma dall’identificazione crocefissa coi poveri. Il motto di Romero «Gloria Dei vivens pauper» riecheggia quello di S. Ireneo «Gloria Dei vivens homo» («la gloria di Dio è il po-vero/l’uomo che vive»). Ciò è perfettamente in linea con il discorso inaugurale e centrale di Gesù, quello delle Beatitudini o della montagna: il regno di Dio è per i poveri, gli affamati, i sofferenti, i derelitti, gli indifesi, gli sfruttati (come i campesinos del Salvador), perché tale regno «di gloria» ribalta le situazioni di miseria e di ingiustizia nella direzione del fiorire della vita. La posta in gioco è altissima: è in gioco la concezione del cristianesimo, che cosa significhi credere oggi, cosa significhi la fede in Dio e in Gesù Cristo, e in che cosa debba consistere la prassi e la missione ecclesiale. La gloria di Dio è quella che l’uomo gli tributa, in primis inginocchiandosi ai suoi altari? Con un Dio interessato a se stesso e alla propria venerazione? Oppure la gloria di Dio è il povero che vive? Con un Dio che non è interessato alla gloria tributatagli e all’adorazione delle proprie sublimi perfezioni, ma il cui fine è la vita buona e felice degli uomini? È quindi cristiano colui che s’impegna per la vita del povero (andando anche in chiesa), oppure è cristiano colui che va in chiesa e non vuol sentir parlare di Romero e di altri come lui, perché la cosa è tremendamente irritante? In quest’ultima concezione infatti un vescovo deve curare la sua diocesi, assicurare l’appartenenza ecclesiale nonché la partecipazione ai riti e ai sacramenti, e garantire la trasmissione della fede, ultrareligiosamente connotata, di padre in figlio, usando tutti i collateralismi possibili senza interessarsi troppo dei problemi socio-politici, come ad es. quelli dei campesinos (sarebbe, nella loro ottica, ridurre il Vangelo a un fatto sociale, ossia l’accusa di orizzontalismo). Si dà il caso però che il Gesù storico (illuminato dalla relativa teologia biblica, come ad es. quella di J. Dupont) dia ragione al secondo Romero; si dà una perfetta coincidenza fra la visione del biblista (Dupont) e la prassi del pastore (Romero), cosa abbastanza rara. Si dà inoltre una totale concordanza tra una visione teologica accademica (occidentale/europea) con una prassi pastorale e una teologia popolare sudamericana: la cosiddetta teologia della liberazione (nelle sue linee portanti, non quelle estremistiche) è perfettamente in linea col discorso gesuano delle beatitudini (ne costituisce un’encomiabile interpretazione e attualizzazione), e quindi coglie perfettamente l’essenza del cristianesimo e del Regno di Dio proclamato da Gesù. Un fastidio per il Vaticano Roma invece, ormai da secoli, nel migliore dei casi ha optato per un cristianesimo di stampo paolino (piuttosto asettico per la problematica sociale dei poveri, tutto incentrato sul mistero pasquale e con Gesù di Nazareth praticamente irrilevante) e per il Cristo giovanneo. Ma il Cristo giovanneo, visto da quasi tutti come il Cristo storico tout court, è solo una delle possibili interpretazioni del Cristo, fra l’altro basata nella stragrande maggioranza dei casi su quel che il Gesù storico non ha detto. A noi non interessa molto che Romero venga canonizzato: è già santo per il suo popolo, e un profeta per noi, che vediamo in lui accomunati tutta una lunga serie di altri martiri per lo più sconosciuti, e non solo fra il clero; gli ammazzavano i suoi preti, e veniva accusato di essere troppo emotivo («una testa calda»: tale accusa la dice lunga sulla freddezza calcolatrice della chiesa di regime). Oltretutto, con le recenti canonizzazioni come quelle di Pio IX e padre Pio, si troverebbe veramente in cattiva compagnia; per completare l’inserimento dei “pii” nella «gloria del Bernini» manca solo Pio XII, perché la santità romana è un fatto sostanzialmente privato e interioristico, e non riguarda la “giustezza” delle decisioni storiche dei prelati. A tale riguardo un ulteriore dato intrigante per Roma è che Romero sarebbe santo (era un uomo di preghiera ecc.) anche per i canoni più tradizionali della santità basata sulle virtù eroiche private di stampo pseudo-ascetico e pseudo-mistico; in un eventuale processo di canonizzazione quasi sicuramente l’accento verrebbe posto su queste ultime. Dato che Roma ama gli abbinamenti, perché non sognare una canonizzazione evangelicamente ed ecumenicamente profetica come quella di Romero assieme, poniamo, a D. Bonhöffer (anche se non cattolico)? Forse che la santità è un’esclusiva del cattolicesimo romano? Non è un caso che il Vaticano, sin dai tempi degli accordi di Santa Fe’ con R. Reagan, abbia aspramente combattuto la teologia della liberazione, soprattutto nominando vescovi agli antipodi di Romero, per cercare di estirparne la concezione della vita cristiana. Non è una novità che la sede del tempio e del sacerdozio (Gerusalemme o Roma) non riconosca e combatta i suoi profeti. La grandezza di Romero sta appunto nella sua inversione a U (che è il significato etimologico letterale della metanoia/conversione), ossia nell’aver girato di 180 gradi l’asse del cristianesimo; per questo dà fastidio, e probabilmente non sarà fatto santo, se non al prezzo di una totale mistificazione della sua marturia (ma non è stato certo ammazzato perché era un sant’uomo nel senso tradizionale). E.F. |