GIOVANNI PAOLO II |
Agonia papale |
Attorno a Pasqua, sono stati giorni in cui la morte – in arrivo, in ritardo, o accelerata, di singoli famosi, di masse oscure – ha tenuto il primo piano nelle notizie. All’inizio dell’ultima malattia di papa Wojtyla, ero dell’opinione che avrebbe dovuto rassegnarsi alle dimissioni, non solo perché non più in grado di svolgere appieno la sua funzione nella chiesa, ma specialmente perché, come avviene, la sua corte finiva per usare i suoi poteri e la sua stessa persona sofferente esibita come emblema. Così pensavo, come tanti. E giudicavo quasi ostinazione e eccessiva idea messianica del proprio ruolo, la resistenza del Papa. Ma, prima dell’aggravamento finale, stavo cambiando opinione. La funzione principale del papa è proprio quella di governare, decidere, dirigere, giudicare, conferire cariche, scrivere documenti magisteriali, viaggiare, mostrarsi alle folle, parlare al mondo? Per chi accetta il suo ruolo come si esercita da molti secoli, è così. Ma la vita insegna, a volte anche ai papi. La lunga vita è un dono di Dio, e anche dei medici. La lunga morte è solo un dono dei medici. Se la morte di papa Woityla non sarà troppo lunga – pensavo – si tratterà, per lui, di una nuova grazia. Ci sono tanti malati che agonizzano per mesi e mesi, senza un’assistenza così speciale. Ma, intanto, vedevo che il Papa malato invece che potente, come è stato a lungo, manifestava un nuovo compito per un cristiano posto, come lui, a servizio della chiesa e del mondo. Essere papa è di pochissimi, uno su miliardi e miliardi. Soffrire è sorte di tutti, destino di tutti è morire. Un papa che soffre e muore, scende dal trono, rientra nella intera folla umana, assai più che col suo lungo viaggiare per il mondo. Mentre, da credente, affida e riconsegna a Dio la propria vita, compie la sua opera più grande. Così, constatavo che, data la sua eccezionale visibilità, stava dando un esempio e un insegnamento muto, mite e concreto, ad ogni essere umano, che creda o no in Dio. Sempre, chi muore bene insegna a vivere. Se del dolore non abbiamo unicamente orrore, ma intravediamo in esso una proposta di coraggio, un mistero di verità, che scava nuovi spazi nel nostro intimo, che indica il nostro limite e quel di là che ogni limite suggerisce, senza dimostrarlo, allora, il dolore e la morte di un uomo davanti a tutti è per tutti un aiuto a vivere in interiore serietà. Chi, seppure grato per le sue posizioni sulla pace e la guerra, e sull’incontro delle religioni, ha avuto motivo di criticare papa Wojtyla, per il modello di chiesa a-conciliare che ha imposto, per la scelta dei vescovi, per l’enfasi forte sull’autorità del papa sopra la collegialità episcopale ed ecclesiale, per la sua opposizione alla teologia della liberazione, nell’ora della malattia finale ha fatto tacere le critiche, rinviate alla storia, e si è commosso partecipando alla sua agonia, che a tutti ricorda e rinnova l’agonia di qualche persona cara, in famiglia, tra gli amici. I più anziani di noi ricordano la morte conciliare di papa Giovanni, nell’abbraccio corale del mondo, poco dopo aver pubblicato la sua Pacem in terris. E il confronto, per chi la ricorda bene (un giorno vorrò scriverne), viene anche con la morte, in un clima tra faraonico e squallido, di Pio XII. La società nasconde vecchi e malati, per non turbare lo spettacolo di gioventù e bellezza, abusata dalla suadente pubblicità. Il papa spettacolare, anche deformato dal male, e rantolante in pubblico, ha reso onore alla bruttezza dei poveri e delle vittime (Isaia 53,2-3). Forse proprio la riduzione umana del morire come tutti, nell’estenuazione finale, contribuirà a riformare il ruolo del papa, come Wojtyla stesso, a un certo punto, disse necessario. Il nuovo papa dovrà imparare, nella fede, anche da questa morte ad essere semplicemente «un uomo come tutti» (Atti degli apostoli 10,26), nei limiti umani, che sono anche limiti di tempo, specialmente per i compiti di maggior peso. Lezione che vale per ogni nostro incarico, nella società umana. Enrico Peyretti |