GIOVANNI PAOLO II
Deve cambiare il pontefice

Non è questo il momento di tentare un giudizio storico sul pontificato di Giovanni Paolo II; sia perché i tempi forse non sono ancora maturi, e sia perché nel momento della morte e del commiato stonerebbero eventuali giudizi negativi. Noi esprimiamo sinceramente tutto il nostro cordoglio, nonostante i profondi disaccordi con certi suoi atti e decisioni storiche. Vogliamo per ora ricordarlo con quella frase del suo testamento spirituale che certamente rimarrà per sempre valida: «Ricordatevi di me: mai più la guerra».

Non è invece indelicato formulare considerazioni, anche pesanti, non sulla persona di papa Wojtyla, ma sul ruolo del papato, del pontificato, della “santa” sede, del collegio cardinalizio, del conclave e del Vaticano, sia in se stessi e sia in particolare come essi sono stati presentati dall’attuale bombardamento mediatico (tv, internet, quotidiani, riviste, rotocalchi...) tutto teso a inneggiare al papa defunto e al suo presunto successo umano e mondiale.

Per designare tale non-stop televisiva, una signora di nostra conoscenza (credente, che recita quotidianamente la «liturgia delle Ore») nel suo dialetto emiliano ha coniato il neologismo «impapèda» (in italiano sarebbe più o meno «impapata»); ma nel contesto è più forte: «a i òm ciapè n’impapèda...» («abbiamo subìto un’impapata...»), dove il verbo «prendere» (ciapèr, chiaramente dal latino coepi, capere) ha qui il significato passivo di «esser presi, catturati»: nel termine c’è l’idea di venir colpiti, subissati, quasi come un’indigestione o un’alimentazione forzata. Pur non avendo gli strumenti teologici e culturali per poter valutare in profondità, si è meravigliata del fatto che tutto ciò sia avvenuto solo per questo papa, e non per i suoi predecessori Paolo VI e Giovanni XXIII, che giudica di gran lunga migliori: è l’intuito del sensus fidelium perché ovviamente non saprebbe motivarlo argomentando.

Tutti i vaticanisti e i preti presenti alle trasmissioni televisive si sono sbizzarriti in un cattolicesimo “triviale”: due degli argomenti principali sono stati «l’angelo custode» e la pallottola deviata al momento dell’attentato. Hanno sciorinato tutta la sequenza degli adempimenti e delle regole, stabilite dal papa defunto nel ’96, circa la successione precisa degli eventi dalla morte del pontefice all’incoronazione del suo successore. Risulta attualmente il documento papale più conosciuto, mentre la maggioranza, giornalisti compresi, non sanno nulla ad es. della Pacem in Terris o della Populorum progressio, rispettivamente, guarda caso, di Giovanni XXIII e Paolo VI, le due encicliche di gran lunga più importanti e significative del secolo XX.

È impressionante la concezione verticistica, piramidale, monarchica e regale della chiesa con in cima la “santa” sede; si va appunto dal “sommo” pontefice (termine pagano) al collegio cardinalizio in rosso porpora, fino ai vescovi (considerati come servi obbedienti, senza alcuna collegialità e discussione), ai preti e ai teologi (oggetto di un’oppressione dottrinale ed ecclesiastica senza risparmio di colpi) e via via sino all’ultimo dei fedeli (la truppa, non il popolo di Dio). Bisogna essere durissimi nei confronti della papolatria imperversante, ossia di una vera e propria adorazione del pontefice tanto da considerarlo il “vero” soggetto dell’attenzione cattolica. L’autentica ecclesiologia non va dal sommo Papa all’ultimo dei fedeli, bensì dal sacerdozio universale dei fedeli (donne comprese) all’ultimo dei papi, dal popolo di Dio all’ultimo prelato, dalla dignità dei poveri al rosso grottesco dei porporati.

Si presume tranquillamente, ed è stato detto senza alcun problema nelle trasmissioni tv, che il papa sia scelto per l’opera, l’influsso e l’ispirazione dello Spirito Santo. Sebbene lo Spirito di Dio soffi quando e dove vuole, se c’è un posto in genere non toccato dal «dito della destra del Padre che elargisce i suoi sette doni (di cui i primi tre sono la sapienza, l’intelletto e il consiglio) e rende le nostre gole capaci di parole» (Tu septiformis munere / digitus paternae dexterae / ... sermone ditans guttura, come è stato invocato, pregato e cantato per circa mille anni col Veni Creator Spiritus), questo luogo è la Cappella Sistina durante il conclave; anche se cantano tale inno mentre si recano in processione.

Nella suddetta ideologia, quasi blasfema, si ritiene che tutto ciò che proviene da Dio, dallo Spirito e dall’alto, nella sua discesa verso gli uomini debba necessariamente passare attraverso il cupolone e i dicasteri della curia vaticana: tutto passa attraverso Roma che pensa in secoli. Speriamo vivamente, contro ogni speranza, che cambi drasticamente il ruolo del vicario di Pietro (non di Cristo; il cardinal Ruini, che conosce bene la differenza e la dicitura corretta, durante la messa di preghiera per il papa in San Giovanni ha parlato ancora una volta, erroneamente ma intenzionalmente, di vicario di Cristo). Purtroppo per l’Occidente (ma, ahimè, visto ciò che è successo, per gran parte del mondo) il Papa rappresenta l’incarnazione del sacro e del divino, un grande tra i grandi (quasi tutti presenti al suo funerale), “il grande” (come è stato chiamato in tv), un eroe semidivino di fronte a cui ci si inginocchia in stato di venerazione. Tutto questo naturalmente non ha niente a che fare con Pietro, e nemmeno con Gesù Cristo.

I papi sono soliti firmarsi, in calce ai documenti importanti, come «servus servorum Dei», «servo dei servi di Dio»: è quanto di più falso e ipocrita si possa scrivere; l’unico recente vero “servo” è stato il papa che ha indetto e aperto il Concilio Vaticano II. Sembra di essere tornati al 1958 (per non dire al medioevo), quando morì Pio XII, il papa che per molti cattolici di allora «non doveva e non poteva morire» (infatti un semidio non può morire). Angelo Roncalli invece era un fratello maggiore, o un padre, non un imperatore.

È il ruolo, la funzione, il senso del servizio petrino che deve trovare una svolta epocale (nella scia aperta da Giovanni XXIII, ma ben presto chiusa), e non tanto la persona con le sue qualità, la quale, come un buon vecchio parroco, può anche confondere, come è successo a Wojtyla, il concilio di Efeso (431) col concilio di Calcedonia (451), quelli delle due nature in Cristo, senza confusione, senza mutazione, senza divisione, senza separazione. Questo linguaggio è vecchio. Ci auguriamo che in futuro il papato sappia trovare parole e forme nuove per l’annuncio e la testimonianza nel mondo contemporaneo.

Ernesto Ferretti


 
 
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