Editoriale |
Se Berlusconi aveva sette vite, tre se le sono prese gli elettori con l’ultima tornata elettorale, tre le ha buttate via lui col suo complesso d’uomo della provvidenza, che fa tutto e meglio quando è solo e va contro corrente. Una gliene resta, corrosa dagli adulatori e appesa ai possibili errori degli avversari. C’è chi ricorda la sua ripresa dopo la crisi degli anni ’90. Ma allora era reduce da un duro conflitto con la Lega, precariamente ricomposto. Aveva perso per pochissimi voti, senza avere mai veramente potuto dare prova del suo stile di governo e delle conseguenze del suo programma. Ora la differenza dei voti a suo svantaggio appare incolmabile e suona come un drastico giudizio negativo sui suoi anni di presidenza. Solo un colpo di reni potrebbe salvarlo, non uno scatto di nervi. Solo una più abile tessitura del legame di alleanza tra diversi, non la rottura aperta con Udc e An e la scelta della Lega in contrapposizione con gli altri alleati. Solo il tentativo di radicare Forza Italia nella società e sul territorio, non il suo accentramento intorno al capo, non l’esaltazione del suo ruolo di coro di adulatori. Eppure la vittoria della sinistra viene da lontano. Elezione dopo elezione, ha preso forza, accompagnando le diverse scelte del governo: le leggi ad personam, l’entrata in guerra, la formalizzazione della riforma della giustizia, la parziale approvazione della modifica della Costituzione, in senso presidenzialista e federalista: il tutto accompagnato dal crescere della crisi economica, malamente tamponata coi provvedimenti sul lavoro e con risibili riduzioni delle tasse. Era naturale che, con l’aggravarsi delle condizioni economiche del paese e dei singoli cittadini, alla fine la palla di neve si trasformasse in valanga, che larga parte dell’elettorato, che nel 2001 aveva sperato in Berlusconi, cambiasse orientamento e che alla botta del 3 aprile ne seguisse subito un’altra anche più significativa, che segnalava come gli elettori di destra preferissero il modello dell’imitazione a quello della reazione. Mentre la destra perdeva rovinosamente, la sinistra, che presentava un futuro candidato alla Presidenza del consiglio molto defilato, vinceva a man bassa, grazie alla Margherita, seguita dai Ds. Restavano ancora più o meno statici gli altri, soprattutto Rifondazione, che molto sperava nelle primarie, che avevano determinato la candidatura di Vendola. Da tutto ciò ci sembra che chi si prospetta come futuro vincitore debba trarre alcuni insegnamenti. Innanzitutto avere come manifesto uomini che si presentano decisi e capaci, ma non presuntuosi e pieni di sé, uomini di governo e d’economia, non di spettacolo, che non promettono l’impossibile, ma fanno il possibile e soprattutto sanno lavorare con gli alleati e sanno farli lavorare. È una caratteristica di tutta la coalizione, messa ben in luce dal caso Vendola e smentita da quello Casson-Cacciari. Solo se il centro-sinistra riesce a mediare le differenze e a costruire un programma da tutti condiviso, perché sembra il migliore per risolvere i problemi del paese, solo se programma il ritiro dell’Italia dalla guerra, la sospensione della riforma costituzionale, una buona riforma della giustizia e del lavoro, una legislazione relativa al risparmio e al controllo delle imprese, una ridistribuzione delle ricchezze non per accontentare i singoli e i privati, ma per aiutare la ripresa economica e per sostenere scuola e sanità pubblica, un riequilibrio delle risorse destinate alla spesa pensionistica e alla previdenza per disoccupati e sotto-occupati, giovani in formazione e ricerca di lavoro, solo con questo programma il governo della sinistra potrà vincere le prossime elezioni e reggere in modo decente fino alla fine della legislatura. [ ] |