DA GIOVANNI PAOLO II A BENEDETTO XVI

Morto un papa se ne fa un altro


Al centro della vita della chiesa vi è Gesù Cristo morto e risorto che siede come Signore alla destra del Padre. Tutta questa vicenda è unica e irripetibile. Nessuna creatura in cielo, in terra e negli inferi può prendere il suo posto (cfr. Fil 2, 9-10). Di ciò non si è mai dubitato. Morto Gesù Cristo non se ne può fare un altro. Quindi tutti coloro che sono sostituibili, per il semplice fatto di essere tali, non sono a immagine di Cristo. O meglio, come vale per tutti, lo sono come persone, non come carica. Ognuno è unico e insostituibile agli occhi di Dio per quel che è, non per la funzione che ricopre. In questo senso dietro il prosaico detto che «morto un papa se ne fa un altro » si cela una verità teologica fondamentale che ribadisce la centralità e l’unicità di nostro Signore Gesù Cristo. Egli, il Vivente nei secoli dei secoli, non può avere nessun vicario né in cielo, né in terra. Pietro invece può avere dei successori così come li hanno gli altri apostoli. Per questo nell’autentica dottrina cattolica il papa è pensato come vescovo di Roma, come successore di Pietro e non come vicario di colui che è sempre presente nella sua Chiesa (cfr. Mt 28,20).

Umanamente vi sono molte realtà insostituibili. Madre e padre non si possono sostituire. Qualcuno può prendere il loro posto, nessuno può essere come loro origine della nostra vita. «Altra è la morte dei genitori. Questa ti si avvinghia addosso. Non ha nulla a che vedere con le altre, non è che perdi loro, e sarebbe dolore, è una perdita di te. Non è vero che sia insopportabile. È la sola prevista... Ma la perdita della madre e del padre è un lutto che non si elabora mai fino in fondo, se elaborazione è superamento. Sei un altro, dopo, e mutilato» (Rossana Rossanda). Nessuno, dopo, si potrà affacciare su un balcone e proclamare la grande gioia di avere un altro genitore. L’immagine paterna del papa («santo padre») suona impropria appunto per la gaudiosa sostituibilità di quella figura. Non si è padri a tempo determinato. Se lo si è vuol dire che se ne stanno facendo le veci, ma allora non è solo la morte a essere chiamata a porre termine a quel compito. Se si vuole evocare una metafora genitoriale, nel caso del papa andrebbe evocato più l’istituto dell’affido che quello dell’adozione. Quando, per una serie di ragioni, si sente completato il tempo del proprio compito le dimissioni del primo tra tutti i vescovi non sarebbero scandalo. Altrettanto potrebbe dirsi di un vescovo di Roma che, lasciato il Vaticano, decidesse di risiedere nella propria sede episcopale: il Laterano. Tutti sanno che la benedizione papale è rivolta urbi et orbi, alla città e al mondo; ma, nella pratica, il secondo termine affonda il primo. Tuttavia resta segno proprio della rivelazione biblica credere che non si dia universale senza particolare: la benedizione raggiunge il mondo solo perché in primis è diretta alla città. L’una e l’altra intenzione andrebbero però enunciate all’inizio del pontificato. Tanto il detto popolare che «morto un papa se ne fa un altro» quanto la modalità ufficiale di un annuncio che dice la letizia di vedere non più vacante una carica indicano che il papato va inteso come una funzione – o, per essere più propri nella espressione, come un servizio – non come un vicariato o una paternità.

Piero Stefani

 
 
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