RACCONTI DA SOGNO
Nell’uovo dell’aquila

I racconti di questa rubrica sono trascrizioni di sogni, normalizzati nella lingua e nelle connessioni logiche, ma sostanzialmente fedeli nello sviluppo delle immagini e della trama. Anche per questo non sempre l’autore sa con esattezza il significato e il valore di ciò che mettono in scena. La loro relativa oscurità ha, comunque, un pregio: come il mito «dà da pensare».

Balza su balza la montagna sale al cielo con un ultimo ago di roccia che brilla di ghiacci inconsunti. Noi lo chiamiamo il Dente di Dio, gli isolani: l’Inaccessibile.

Bisogna tentarlo d’inverno, quando la neve, indurita dalla tramontana antartica, riveste ogni parete di diaspro, ogni incolmabile baratro, con un manto compatto ma lavorabile.

Abbiamo deciso di chiudere qui la nostra carriera di amanti dell’altissimo. La tecnica ormai lo consente e il percorso non manca di qualche attrezzatura, compreso un piccolo monoblocco di durissima plastica coibentata, ancorato ai piedi della guglia con catene d’acciaio. Una giornata non basta alla salita, ma giunti a quel punto il più è fatto. Con chiodi da ghiaccio e corde in due ore si piantano gli scarponi sulla cime dell’Inaccessibile e poi giù a capofitto per essere prima di sera alla barca da noleggio.

Il tramonto è limpido e gelido. Dobbiamo toglierci zaini e ramponi prima di entrare nel bivacco, l’Uovo dell’aquila. Lo spazio interno consente movimenti di pura sopravvivenza. Ci chiudiamo alle spalle il portello stagno che serve anche da oblò e, alla luce della minuscola lampada di servizio, mangiamo seduti e ci addormentiamo con un bacio.

Fuori soffia un vento leggero, inconsueto per la stagione. La montagna tace. Ci sveglia una scossa terribile. L’uovo precipita; poi con un nuovo sobbalzo si ferma e comincia a oscillare come sospeso nel vuoto e nel vuoto si ferma. La nostre mani si cercano e si stringono. Ad una voce ci diciamo: «Sento la tua presenza. Sei tu?». «Sono io»: balbettiamo, come chi non è sicuro di niente.

Aspettiamo l’alba immobili. Quando mi sembra di scorgere un po’ di luce socchiudo appena lo sportello e la lampada sparisce nell’abisso. Tutto è avvolto nella nebbia. La corda d’acciaio deve pendere a piombo dalla parete, tenendoci sospesi in una spazio indefinibile, che non dà campo ai telefonini. Siamo invisibili allo sguardo e irraggiungibili dalle voci. Siamo ciechi e muti.

Passano i giorni, la metà di quaranta. Finisce la riserva di cibo e poi di acqua. La coscienza va e viene. La nebbia resiste fitta fino alla ventesima notte, quando una tempesta orribile di tuoni e di fulmini, di vento e di sobbalzi dell’uovo, lo terremota su una minuscola cengia.

Ci alziamo smagriti come un Battista e una Maddalena nel sole di un mattino limpidissimo. Il bivacco è a pezzi. Non c’e traccia di cibo ma neanche di naturali deiezioni.

Guardiamo al Dente di Dio, che come un fuoco riflette gli azzurri del cielo e le fiamme del sole, e lentamente scendiamo dall’Inaccessibile. Alla spiaggia più nessuno ci attende, ma il telefonino riesce a mandare un ultimo messaggio, prima di esalare l’anima: «In uovo d’aquila ci ha fatto attraversare l’abisso. Sulla riva del mare aspettiamo».

Aldo Bodrato


 
 
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