EUCARESTIA |
«Prendetene e mangiatene tutti» |
Nella liturgia ci sono espressioni “sedate” a cui vengono accordate le significanze che a loro spettano. «Prendete e mangiatene tutti...» è una di queste, e mentre i teologi ciclicamente si affrontano sui significati del “memoriale”, quel chiarissimo «tutti» sembra non sfiorarli, cioè sembra che la portata universale del dono non sia veramente tale, incondizionata, dono non dell’uomo Gesù, ma del Dio che in Lui si annichilisce per entrare nelle miserie dell’umanità e portare in salvo, attraverso la croce e la resurrezione, tutti, senza eccezione. In Gesù tutto parla di gratuità; Lui offre se stesso dopo aver insegnato con parole e segni la strada del Regno, sapendo che insegna a persone tarate dal limite e dalla fragilità. Gesù non offre se stesso a persone perfette (di Lui i farisei non hanno bisogno, da Lui si sentono offesi), ma a persone “povere” che cercano il senso al loro vivere e dalle cui patologie spirituali fuoriescono perlopiù solo frammenti diversificati e non riconducibili a schemi di fede, eppure sono fede. È la fede il punto di partenza della risposta umana, dell’adesione, quella fede che si vorrebbe inquadrare, catalogare in termini e modi corretti e che invece per la disarmonia di persone dalle esperienze complesse, non è sempre possibile. La chiesa è la fede in Cristo Gesù di tutte le persone che lo cercano, che tentano anche solo sporadicamente l’avventura del cammino verso il Regno. Tagliati fuori E allora avviene che sempre più sovente nella celebrazione dell’eucarestia, al momento della consacrazione, quelle parole di Gesù che vado a pronunciare convinto e commosso, mi mettono a disagio e mi immalinconiscono perché, guardandomi attorno, so che molte persone per ignoranza, per sensi di colpa, per una normativa ecclesiastica, sono o si ritengono tagliate fuori. Ripenso alla sirofenicia delle briciole ai cagnolini, a Giairo pagano, alla donna che perde sangue ed è stremata, prossima a morire, a Zaccheo curioso di vedere Gesù, alla donna che gli lava i piedi con le lacrime a glieli asciuga con i capelli... spaccati diversi di esperienze e di religiosità, misteri di persone che dalle loro disperazioni avvicinano quel Gesù fisico che attraversa i loro cammini. Oggi Gesù nel mistero della sua presenza reale nel pane e nel mistero della sua presenza reale nel pane e nel vino ancora si espone, avvicina e si lascia avvicinare per incoraggiare, guarire e rimandare nella vita. Non ho mai pensato a un’eucarestia per i buoni. E quel «tutti» esclude una partecipazione a inviti. Del resto l’ultima cena Gesù la condivide con i discepoli che conosciamo (e che Lui conosce), cioè con persone affette da normali passioni umane, da visibili paure e incertezze, dalla cosiddetta fragilità naturale. Gesù non ha scelto, ha mangiato la cena con le persone con cui ha condiviso i tre anni di vita: Gesù in quei discepoli vede la chiesa che lo continuerà, santa e peccatrice, dove nessuno è munito di un pass particolare e dove lo sono tutti. Riesco ancora a commuovermi, affascinato dal dono a fondo perduto che è il Cristo della pasqua offerto in ogni celebrazione: Lui c’è, è lì, promessa e realtà che ogni volta il sacerdote rinnova e invera. Senza restrizioni di sorta, il «tutti» indica l’universalità del dono di salvezza meritato da lui solo nell’ambito di un progetto che è di Dio, dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto per inadempienza umana, e che dona al di là dei nostri meriti o demeriti. Proprio per la costante del peccato umano Dio fa della salvezza un’offerta unilaterale, conscio che l’umanità non è in grado di contraccambiare. Noi possiamo andare a Lui solo dalla nostra povertà, dal nostro bisogno, nella debolezza che ben conosciamo, e cioè andiamo a Lui nella fede che si snoda secondo progressioni misteriose nell’intrico del vivere umano, libertà limitata di cui disponiamo. Alla donna di Samaria, Gesù in realtà non chiede niente, ma parlandole l’aiuta a riconoscersi per quella che è, dietro la patina di un femminismo ante litteram, e a lei, a cui ha chiesto da bere, offre in realtà la sua acqua: il cuore della donna, nonostante il subbuglio di vita, è pronto a riceverla. Perché non pensare che la gente che entra in chiesa (al di là di matrimoni e funerali) ci venga proprio perché ha bisogno di un rapporto particolare che sa di non poter trovare altrove? Quello è il suo momento di grazia, è il tempo del qualcosa che da indistinto si fa preciso, è Gesù Cristo come lo ha conosciuto, come ne ha sentito parlare. Zaccheo è primariamente la curiosità che l’ha spinto a vedere Gesù che passa, ma noi oggi diremmo che come motivazione è debole, non tiene. «Ho desiderato ardentemente fare questa cena pasquale con voi prima di morire». «Ardente-mente » dice quanto Gesù ci tiene a far partecipe della sua Pasqua questi amici che per Lui hanno lasciato tutto, l’hanno seguito con le loro sventatezze e i loro slanci, e l’abbandoneranno al momento del bisogno, e però sono gli amici ai quali come primizia vuole offrire se stesso, amici di cui pure ha preso le misure, per cui ognuno a modo suo è indegno, ecc. Gesù condanna l’ipocrisia, ma peraltro invita accoglie offre e manda. «Io sono il pane che dà la vita». Sta parlando alla gente che l’ha seguito, a cui ha dato da mangiare miracolosamente pani e pesci e a cui sta cercando ora di dire che c’è anche un altro pane, ed è Lui: a differenza del commerciante che vende, lui offre, regala. Ma tant’è: la sfiducia accoglie le sue parole, perché il passaggio dal pane a Lui è da acrobata, impossibile da comprendere. Gesù poi continua nel suo affondo: «Chi mangia di me rimane unito a me» e «Chi mangia di me ha la vita eterna»: concetti acrobatici. «In modo indegno» I sinottici narrano l’Ultima Cena con i discepoli: Giovanni parla di Gesù pane vivo con la folla all’interno di un miracolo strepitoso; nei due casi, chiarissimo nel secondo, la parola si rivolge alla fede che sappia discernere pane da pane, mentre ai discepoli che sono l’embrione della chiesa dona se stesso nel pane e nel vino. L’eucarestia e il suo parteciparvi è un dono che instaura un diritto. Le restrizioni non le ha poste Gesù, ma, nei secoli, la chiesa. Ma allora perché restrizioni e chiusure? Più esigente di Gesù che è tutto un appellarsi alla coscienza che va al di là della legge, la chiesa, nel tempo, si «impadronisce» della salvezza e la gestisce attraverso suoi canali di distribuzione, cioè la controlla in forza di quel «Ciò che legherete sulla terra, sarà legato anche in cielo, e tutto ciò che scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche in cielo», espressione che interpreta come attribuzione di potere, lontana rispetto al servire della lavanda dei piedi. Sarà san Paolo nel cap. 11 della 1° Corinti a parlare di abusi nel contesto della celebrazione: «Chi mangia del pane e beve del calice senza discernere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» e «Chi mangia e beve... in modo indegno, si rende colpevole verso il corpo e sangue del Signore». La chiesa, come appaltatrice della continuità del Cristo, amplia il «modo indegno» che in san Paolo è riferito ai peccati di divisione all’interno della comunità, alla voracità e al non condividere, portandolo su altri piani che toccano la realtà personale dei cristiani. Diventa legge e non un’indicazione per un ripensamento di conversione. Non conta più la fede, ma come ti trovi nell’intrico del vivere, e il «tutti» non è più tale. Il sacramento ha necessità della fede, cioè che la persona si renda conto che va a incontrare il Signore Gesù, lo riconosca e lo faccia in buona coscienza, al di là della sua situazione personale di peccatore. La parabola del fariseo e del pubblicano insegna. A volte ho paura di essere portatore di discernimenti farisaici, di essere segno di una contraddizione fondata non su Gesù Cristo ma sulla legge, e che il tentativo di dire e offrire l’amore di Dio sia una vana parola slegata dal contesto del vivere. Ora il vivere, quell’esperienza unica e umanamente circoscritta nella complessità dei suoi ritmi non ripetibili e non fotocopiabili, va presa sul serio. Piero Borelli |