LA FORZA DI RISOLLEVARSI |
Storie brasiliane |
Scorrono sullo schermo della televisione le immagini di un Brasile fiero, vigoroso, che c’è, si fa vedere, sentire e vince. Sono le immagini che arrivano da Atene, in diretta. Sono le Olimpiadi 2004, e la televisione brasiliana trasmette, fin dalle prime ore dell’alba, tutte le immagini possibili dei suoi atleti impegnati nelle diverse discipline. In sottofondo, ma neanche troppo in fondo, si sente la voce del telecronista brasiliano, fiero anche lui, che accompagna e incita gli atleti, quasi come se lo potessero sentire! Ma ad ascoltarlo siamo noi, e se immaginiamo di essere i cameraman, e di avere in mano una cinepresa (o siamo noi i soggetti/oggetti ripresi? questa domanda ce la porteremo dietro per tutto il viaggio) e allarghiamo l’inquadratura, la scena immortala un gruppo di persone, sedute su sedie di plastica, che si riposano in attesa della colazione. Recife: immagini di un Brasile fiero Ci sono dei ragazzi, giovani brasiliani, e come gli atleti che stanno gareggiando, anche loro sono fieri e vivaci. Sono le sette del mattino, i protagonisti di questa storia hanno salutato l’alba dando da mangiare a conigli, oche, galline, maiali, portando al pascolo le due mucche (la terza è morta per il morso di un serpente velenoso, ma Adieuson non pare farci caso quando guida le altre due mucche a piedi nudi in mezzo alla macchia tropicale), si fermano un’ora per la colazione, per poi riprendere le attività nei campi fino all’ora di pranzo. L’inquadratura si allarga ancora, e la voce fuori campo ci spiega che siamo al Serta, Servizio di Tecnologia Alternativa, un centro che proprio in questa settimana (è la fortuna di essere protagonisti del film) compie i suoi primi 15 anni di vita. Il Serta è a una quarantina di chilometri da Recife, capitale del Pernambuco, e agli occhi di noi osservatori/coprotagonisti, appare come un angolo di paradiso, colline con filari di robuste palme, mentre per i nostri atleti brasiliani è una terra da addomesticare e da far fruttare con intelligenza e rispetto. Perché è proprio di questo che si occupa il Serta: educazione alternativa, alternativa alla povertà, al latifondo della canna da zucchero, agli stereotipi e preconcetti di chi non sa, non vuole o non osa più cambiare. E allora ovunque ci giriamo, dovunque andiamo incontriamo ragazzi (qui in Italia li chiameremmo ragazzini, ma appena ti fermi a parlare con loro ti accorgi che il diminutivo lo hanno abbandonato da un pezzo) che, con vero, reale e sincero entusiasmo, si rimboccano le maniche e creativamente da sani e ribelli adolescenti e giovani adulti, producono: agricoltura organica, tecnologie per un’energia alternativa, spettacoli teatrali in cui raccontano con orgoglio le vicissitudini storiche della loro terra, balli e musiche dai ritmi coinvolgenti, centri di ascolto e sostegno popolare per bambini, strutture per la valorizzazione dell’artigianato locale. L’elenco potrebbe continuare ancora, ma quello che più ci colpisce è che in questo turbinio di attività, nel pieno fermento di rinascita del Paese, tutti, ma proprio tutti, si fermano un attimo per parlare con noi, per raccontarci quello che stanno facendo, per chiederci che cosa sapevamo e pensavamo prima del Brasile. Orgoglio nazionale, per noi giovani italiani concetto se non sconosciuto tutto sommato irrilevante, orgoglio che si realizza nell’impegno per la rinascita del paese, per diffondere nel mondo, nell’incontro con noi, la conoscenza di un Brasile diverso, che non sia solo povertà, bambini di strada che ti derubano e sniffano colla, le spiagge di Copacabana, o il carnevale di Rio, con gli annessi e connessi che ben immaginiamo! È un Brasile consapevole della sua storia, della sua ricchezza, del suo oggi per un domani migliore. San Paolo: il carosello del popolo della strada Dopo una settimana, immersi e inebriati dai colori e ritmi della terra, arriva il momento di partire. Voliamo verso San Paolo, l’immensa metropoli (18 milioni di abitanti) dove da tanti decenni affluiscono speranzosi da ogni angolo del Brasile. San Paolo è una lavanderia a ciclo continuo, dove la cesta dei panni sporchi non finisce mai, e non finirà fin che esisteranno uomini che si mettono addosso vestiti, sempre nuovi e puliti, e li buttano via dopo averli usati una sola volta. A San Paolo non c’è una terra da coltivare, da addomesticare, da veder fiorire, a San Paolo ci sono le favelas, intricati cunicoli di mattoni (pochi), cemento (tanto), assi, porte, tende dietro le quali si riparano le storie più incredibili, dove i figli si fanno a 14 anni, dove i bambini giocano a piedi nudi, all’aperto, nell’acqua (facciamo finta che sia acqua), aggrappandosi per non cadere a intricati fili dell’elettricità che arrivano da chissà dove e pendono abbandonati fino al prossimo, ennesimo, collegamento. A San Paolo ci sono gli abitanti della strada, e non barboni, perché nella strada loro ci nascono, crescono, mangiano, dormono, vivono, piangono, ridono, cantano, ballano e muoiono. Muoiono sì, o vengono uccisi come è successo, ancora, di nuovo, proprio la sera prima del nostro arrivo, presi a bastonate da noti sconosciuti. Succede da anni, ma, come recita un famoso film, non può piovere per sempre, e allora bisogna fare qualcosa perché questi crimini, questa cattiveria crudele quanto gratuita, si fermi. Riprendiamo in mano la telecamera, questa volta protagonisti di una scena degna di un film di Giordana, solo che il set non è l’irrequieta Torino degli anni ’70, ma una San Paolo moderna, che dà appuntamento di fronte alla cattedrale a migliaia di persone: c’è il povo do rua, ci sono cattolici, protestanti, buddisti, ebrei, ci sono i ragazzi di Casa Vida, c’è il vescovo, c’è addirittura il ministro della giustizia, prima storica apparizione del governo federale a una manifestazione in difesa dei diritti del popolo della strada, e ci siamo anche noi. Più che una manifestazione questa ci sembra un inno alla vita, una decisa e sincera richiesta di vivere, da parte di tutti i presenti in nome di quelli che non sono potuti venire, assenti giustificati, anche per quelli ingiustificati e ancora in attesa di giudizio. A San Paolo la richiesta di vita, di una vita migliore, non si ferma mai, la si incontra a ogni angolo, sotto le più diverse forme. Noi la incontriamo al centro San Martino, un centro diurno che accoglie da dieci anni il povo do rua fornendo i servizi primari di alimentazione, assistenza, ed educazione sanitaria, supporto nel disbrigo delle pratiche burocratiche che permettono di ottenere un documento d’identità, per poter dimostrare, a una società che non li vuole, che anche loro esistono. A Casa Vida la vita è una scommessa da vincere ogni giorno, non sono ammesse distrazioni, neanche quando i protagonisti sono dei bambini e degli adolescenti, che avrebbero tutto il diritto di concedersi qualche distrazione. San Paolo è tutto questo, ma è anche una splendida città, ricca di cose belle da vedere, di bei locali dove passare una serata; noi non le abbiamo viste questa cose, ce le ha raccontate l’educatrice dell’Espaço de Convivenza che ci ha adottato per qualche giorno, e nelle sue parole c’era tutto l’orgoglio e la passione dei brasiliani che credono nel loro paese, nella ricchezza e nel «progresso», e che vogliono che noi, stranieri dei paesi ricchi, possiamo conoscere anche questa parte del Brasile. All’Espaço de Convivenza la vita è tutto un fermento, come è giusto che sia in un luogo frequentato da centinaia di adolescenti, con mille idee per la testa, tanta voglia di riscatto, e tanti ricatti da rifiutare. Petropolis: ricchi che si trovano poveri Inebriati da questo carosello paulista di incontri, emozioni e pensieri, è già ora di partire: direzione Petropolis, a 100 chilometri da Rio de Janeiro. A Petropolis siamo ospiti della Casa della Pace, ma forse più che ospiti direi accolti, un luogo immerso nella sorprendente Mata Atlantica, dove chiunque abbia voglia di vedere e magari vivere il Brasile con occhi diversi qua trova dimora e ristoro. Alla Casa della Pace siamo dunque ospiti, che significa che qui non si paga: non si paga la camera, non si paga il cibo che si trova nella cucina comune, non paghiamo mai neanche un pranzo o una cena in giro. Ospiti, per sperimentare la libertà dell’incontro, diritto che non va negato a nessuno, neanche a chi non potrebbe permetterselo. Splendido, viene da pensare al primo momento, ma poi ci rendiamo conto di quanto un gesto di così semplice generosità ci metta di fronte, per l’ennesima volta durante questo viaggio, a un nuovo paradigma: noi ricchi occidentali, venuti nel Brasile terzomondista per fare un’opera di bene verso chi ne ha bisogno, ci ritroviamo poveri, ma di una povertà diversa, e per fortuna ora più consapevole, e veniamo quotidianamente accuditi e cibati da ogni persona che incontriamo, persone che sul biglietto da visita da presentare al mondo hanno scritto «povero del terzo mondo», ma viene da chiederci che cosa sia veramente la povertà. C’è quella oggettiva, tangibile, delle comunità della baxiada dove c’era e c’è ancora chi muore di fame, chi vende il proprio corpo, chi del proprio corpo non sa più cosa farsene, dove alcolismo e analfabetismo raggiungono percentuali che non riusciamo neanche a ricordare. Luoghi dove c’è qualcuno però che di fronte a tali problematiche, terribilmente tangibili, trova la forza, per noi talvolta sorprendente, di risollevarsi nell’altro, di creare vere comunità a partire da esigenze reali, di educare nella strada riportando ai nostri occhi quella dignità che non hanno mai perso. Ed è così che, ad esempio, a partire da un asilo straripante di vivacissimi bambini si arriva a riqualificare la vita delle persone che attorno a quell’asilo fisicamente vivono, attraverso un’educazione alimentare, un’educazione sanitaria, un’educazione sessuale. Sui volti sorridenti e birbanti di quei bambini la telecamera, anch’essa tentata di indugiare ancora un momento, stacca, e l’immagine successiva sono frammenti degli indimenticabili momenti estivi, ma sono foto appese sul muro della nostra camera milanese. Le guardiamo, incessantemente, ogni giorno, e ogni volta, insieme ad un pizzico di nostalgia, ci torna in mente la solita domanda: ma noi, partiti da Milano con i nostri zaini pieni, pieni della consapevolezza di vivere da privilegiati, noi siamo davvero così ricchi? Che cosa abbiamo dato a quelle persone? Anche la risposta è sempre la stessa: siamo tornati a casa ricchi, adesso sì, di una ricchezza che non si misura in zeri, ma che in qualche modo, a partire da chi siamo e da cosa vogliamo diventare, vogliamo ricambiare. Chiara e Stefano Casadio |