TEOLOGIA E FILOSOFIA ESISTENZIALE |
Del nascere e del morire |
Si nasce e si muore alla rinfusa, vale a dire così come capita, più o meno per caso, con un controllo e secondo regole persino un po’ meno precise di quelle del vivere. Certo, fa piacere pensare che si nasce voluti dai genitori, in un atto libero e responsabile, che chiama all’esistere con un impegno d’attenzione e d’amore. Di costoro si dice che sono “donati” e che esprimono il lato buono e generoso del reale. Sono esseri di cui l’essere sembra prendersi cura. Ma sono pochi rispetto a coloro che madri e padri, sfiancati dalla fatica, chiamano a vivere senza volerlo e, spesso, senza saperlo. Sono troppi i figli che le madri e i padri generano ad occhi chiusi, gettandoli a caso nel mondo. Sono troppi i bambini che nascono per mancanza di preservativo, da rapporti non voluti, nell’esercizio della prostituzione, a seguito di violenza, di stupro o di altri atti di guerra. Sono troppi i bambini che vedono la luce solo per soffrire, che, nel silenzio del cielo, tra i rumori indifferenti della terra, s’avviano subito alla morte per malattia, per fame o sfruttamento. Appartengono al lato oscuro del creato. Sono opera, si dice, «del male e del peccato» e formano la grande massa dei vivi. La loro presenza schiaccia la natura e denuncia la vanitas della pretesa di attribuire a Dio il governo del mondo, quando è chiaro che è l’uomo, religioso o no, a sentirsi chiamato alla responsabilità e alla cura dell’essere proprio e altrui. Nelle mani di Dio? Così è del morire. Rarissimo è il morire al momento giusto, quando la vita spontaneamente si spegne, o almeno ci lascia senza sofferenze insopportabili e umilianti, accompagnati dall’amore di coloro con cui abbiamo vissuto. Per lo più si muore di malattie debilitanti e distruttive, troppo rapide per consentirci il congedo o troppo lente per non estenuare tutti. Nel fortunato Occidente si può almeno morire, dopo che ogni tentativo di guarigione è stato ragionevolmente tentato. Si può andarsene negli ospedali, in un ambiente freddo e straniero, che ha però il merito di farsi carico della sofferenza del malato. Si può morire senza troppo dolore, con un nome, così come con un nome si è nati. In tutto il resto del mondo, no. In India, in Cina, nel Sud-America, in Africa, uno se ne va sconosciuto, come sconosciuto è venuto, senza lasciare altra traccia dal proprio patire. Se ci fosse una natura, sarebbe per lei un numero statistico. Se c’è un Dio, che con solidarietà ci accompagna, non può che farci udire come suo lamento il rantolo del morente. Un Dio che regge e detta regole alla vita sulla terra è sogno o strumento di autoaffermazione ecclesiastica, sigillo d’autorità e d’impero. Non è fede e servizio. E siamo al dunque. Nel passato si riteneva che spettasse a Dio decidere della vita e della morte di una foglia, di un passero o di un nostro capello. Oggi più nessuno lo pensa in termini tanto semplificati. Anzi più nessuno ha il coraggio di attribuire a Dio le nascite e le morti casuali, i bambini geneticamente malati, quelli bruciati dal napalm, mutilati e dissanguati dalle bombe, i vecchi spenti nella miseria e nei rifiuti, gli invasi dalle metastasi, che urlando vomitano le interiora. Dalla natura all’uomo Se qualche cristiano ha teorizzato la provvidenzialità dell’orrida fine dei persecutori o ha parlato del soffrire come un dono del divino amore, ha bestemmiato per follia o per disperazione. Ecco perché si è sostituito l’intervento diretto di Dio sul nascere e sul morire con quello mediatore della natura e delle sue leggi, indiscutibili e intoccabili. Sembrava di laicizzarne e razionalizzarne la responsabilità. Di fatto si è costruito un’illusione ottica. La vecchia natura, uscita perfettamente ordinata dalla mente di Dio, è un concetto teologico fittizio, con scarso fondamento. Non regge ad una seria riflessione di fede e ad una attenta analisi razionale. Gli esseri nascono e muoiono secondo meccanismi biologici, che noi diciamo naturali in quanto non miracolistici, non magici e indipendenti dall’arbitrio divino o umano. Il che è altra cosa dal sostenere che i fenomeni naturali sono frutto di un principio ordinatore, che orienta il tutto ad un fine unitario antropologico o teologico. Anzi, da questo punto di vista la natura è ben più fragile di Dio. Di lei si può tranquillamente affermare che non c’è o che è al più una nostra proiezione, razionalmente utile, ma anche razionalmente, culturalmente ed eticamente cangiante e relativa. L’evoluzionismo e la fisica post-atomica hanno dato, infatti, il colpo di grazia alla natura stoica e a quella aristotelica, tanto care ai Padri e ai Dottori medioevali, e ci hanno costretti a nascere, vivere e morire, non solo senza «l’ipotesi Dio», ma anche orfani del tutto del fantasma della natura. L’uomo è solo e sa di essere sempre stato solo per tutto ciò che riguarda la sua esistenza nel mondo. Se un Dio gli è compagno, lo è in quanto lo invita a fare da sé, o volendo, in quanto a lui in tutto affida l’altro e se stesso, almeno fino a quando nella Gerusalemme celeste non si compirà la rivelazione del Crocefisso-Risorto con la creazione di «cieli e terre nuove», tema questo di fede e di speranza, non di razionale e religioso governo del mondo. Se così stanno le cose, non ci deve meravigliare che l’uomo si carichi la responsabilità, oltre che delle nascite e delle morti che la tradizione gli ha sempre addebitato a peccato, anche del problema del nascere e del morire, fino a ieri attribuiti a Dio o alla natura. È l’uomo infatti che, in assenza di migliori spiegazioni, un tempo diceva «siamo nelle mani di Dio»; «questo bambino viene dal cielo o è frutto di peccato»; «Dio destina il giorno della nascita e quello della morte »; «è giunta la nostra ora»; «la natura vede e provvede». Perché stupirsi se oggi, con tutt’altra coscienza e conoscenza, dice che tocca a lui decidere? Perché recriminare, se rivela e rivendica tutto il peso della sua responsabilità? Perché scandalizzarsi, se è il solo in grado di trasformare in progetto razionale e in finalizzazione sociale e morale, l’inevitabile relativismo conoscitivo ed etico, in cui l’eclissi di Dio e la fine della natura lo hanno lasciato? Pericoli e limiti delle scienze Certo questo comporta dei rischi. L’uomo è tutto meno che santo e umanamente disinteressato. Potrebbe, come diceva il catechismo di Pio X a proposito di Dio, creare un mondo il cui fine è «amarlo e servirlo». Ma non è detto che l’uomo sia megalomane come il Dio degli ecclesiastici e soprattutto è inevitabile che fino al giorno dell’Apocalisse, si debba affidare alla pura fede evangelica o alla capacità storica e mondana di autocontrollo, che è tanto maggiore, quanto più si basa, non sul singolo sentire, ma sulla deliberazione democratica, illuminata dal sapere delle scienze umane e di quelle “positive”. Così, se in assenza di criteri oggettivi per stabilire quando inizia e quando termina la vita, devo fare scelte nel campo della procreazione o in quello dell’eutanasia, formerò le mie convinzioni ascoltando prima di tutto gli uomini di scienza che di questi problemi si occupano per studio e per pratica professionale. Sarò molto più cauto nei confronti di chi parla in nome di Dio o della natura. Diffiderò, addirittura, dei miei timori ancestrali, che mai hanno contribuito davvero a lenire le sofferenze del nascere e del morire, ma le hanno lasciate aperte alle più singolari speculazioni. Se la scienza moderna può abusare del suo sapere per costruire mostri e produrre armi distruttive al servizio dei potenti, la teologia lo ha già fatto per produrre inquisitori, bruciare streghe ed eretici, infliggere a innocenti gravi sofferenze, proclamare crociate e giustificare dittature. Certo ha anche usato la sua forza di pensiero per difendere i deboli, dialogare tra popoli e soccorrere i sofferenti. Ma, quando ha voluto consolidare tutto ciò, ha dovuto ricorrere all’aiuto del pensiero giuridico e scientifico razionale, che si è rivelato più efficace e che potrà anche dirsi “migliore”, se eviterà di pretendere per sé l’infallibilità divina e si sottoporrà sempre al controllo del pubblico dibattito e alla continua verifica critica della mente, del cuore e del confronto culturale. Il miglior limite alle scienze viene, del resto, dal corretto uso del metodo scientifico stesso e dal suo dialogo con l’insieme degli altri saperi umani. Il che vale anche per l’uomo, che è il più esigente critico di se stesso, oltre che il proprio più adeguato sostegno. Tanto che per il cristianesimo Dio stesso, se vuole dialogare col creato, deve farsi carne e realizzare il suo disegno grazie all’opera di carità e di salvezza di un uomo e dei suoi. Aldo Bodrato |