Editoriale
 

L’Europa ha bocciato l’Europa. Dopo i risultati negativi dei referendum in Francia e Olanda, e la decisione inglese di rinunciare alla consultazione, il progetto di costituzione europea si può già considerare fallito.
L’evento non ha suscitato grandi emozioni in Italia. Il dibattito politico nello stivale – non solo quello della classe politica, ma anche del popolo di militanti ed elettori – ha ben altri problemi di cui preoccuparsi. Mentre a destra Berlusconi escogita il partito unico per compensare con i voti di Alleanza Nazionale la frana di Forza Italia, a sinistra Rutelli riscopre la migliore tradizione dorotea del correntismo pre-elettorale. Appena si è profilata l’eventualità della sconfitta del Polo, ecco riapparire la collaudata strategia proporzionalista «più siamo divisi, e più voti pigliamo», con il suo indispensabile corollario «più siamo divisi, e più poltrone agguantiamo». A pensarci bene, non siamo alla vigilia di una grande occasione perduta, ma in una fase di continuità con il quinquennio berlusconiano e soprattutto con il quarantennio democristiano. Se per proteggere i nostri affarucci è stato utile un bottegaio vanaglorioso, ora che dobbiamo cambiarlo – perchè ci sta portando alla bancarotta – è meglio una combriccola di litiganti per il potere – come ne abbiamo conosciuto per quarant’anni – piuttosto di una maggioranza compatta, che rischia di venirci a chiedere di pagare le tasse. Tanto alla grande politica ci pensa l’Europa, sennò perchè saremmo europeisti ad oltranza? Solo che l’Europa sembra inceppata, e proprio per questioni di grande politica.

La bocciatura del Trattato per la costituzione europea è un paradosso che suscita molti commenti. Tra le tante spiegazioni possibili, la più diffusa motivazione del rifiuto va probabilmente cercata nella percezione del cosiddetto stato sociale.

In Francia e in Olanda, per la prima volta dopo oltre un decennio, il voto del referendum è stato dunque un voto di “classe”. Hanno votato contro il progetto di costituzione, in maniera uniforme, le classi più povere e più dipendenti dagli strumenti di solidarietà nazionale. Ha votato contro chi non può fare a meno della scuola pubblica, dell’assistenza sanitaria, dei trasporti collettivi, delle pensioni statali o delle indennità di disoccupazione. Hanno votato contro perchè da anni i governi, di destra o di sinistra, raccontano loro che devono ridurre tutte queste prestazioni a causa dell’Unione Europea e dei criteri per restare dentro l’euro. Sarebbe stato molto più impopolare spiegare che per finanziare questi servizi bisognerebbe pagare più tasse, prelevare più contributi sociali e contemporaneamente ridurre i salari, per fare in modo che i prodotti fabbricati in Europa siano competitivi con quelli fabbricati in altri paesi del mondo, dove tutti questi servizi non si devono finanziare perchè non ci sono. Ha votato contro chi non trova lavoro o fa sempre più fatica a conservarlo, mentre le aziende chiudono a Parigi per riaprire a Praga, o licenziano gli olandesi per assumere dei polacchi.

In che consiste il paradosso? Proprio nel fatto che il progetto di costituzione europea introduceva - seppure ancora in maniera timorosa – il principio della previdenza sociale e dello sviluppo durevole, accanto a quello della libera circolazione delle merci e della concorrenza, che sono stati i principi fondatori della Comunità Economica Europea prima, e il motore dell’Unione Europea e dell’euro poi. Aver bocciato questo progetto significa, sul piano istituzionale, “rifugiarsi” nei trattati firmati finora, e che hanno condotto a certe forme estreme di liberismo, come l’infelice direttiva Bolkenstein, che tanto panico ha generato nella piccola e media impresa europea. Un caso esemplare di questione politico-istituzionale, la cui materia assai complessa è difficilmente digeribile dalla massa degli elettori, e forse mal si presta a consultazioni popolari di tipo referendario, mentre sarebbe più responsabilmente trattata in un contesto istituzionale ristretto come quello parlamentare, dei politici di professione.

Posto dunque che probabilmente l’intenzione del voto anti-europeista si è applicata a una materia equivocata, resta estremamente significativo coglierne le ragioni più profonde. Il malessere che percorre le classi meno abbienti dell’Europa è prevalentemente determinato dal degrado delle condizioni materiali e dall’insicurezza che genera la perdita di protezioni su molti bisogni primari. È indubbio, per esempio, che sia difficile cogliere nella propria vita quotidiana i vantaggi dell’allargamento dell’Unione. Quello che constatiamo immediatamente è che i nostri salari tendono al ribasso proprio perchè, per il principio dei vasi comunicanti imposto dal libero mercato comune, un nuovo equilibrio si sta stabilendo con quelli dei lavoratori dell’Est, che, partendo invece da livelli molto inferiori, stanno alzandosi, permettendo loro un migliore livello di vita. Con buona pace della solidarietà di classe e dell’internazionale operaia, quello che stiamo vivendo è una manifestazione di egoistica difesa di privilegi, costruiti certo a colpi di lotte sociali, ma garantiti da un disequilibrio economico ben protetto dentro le nostre frontiere.

Ora che le frontiere si allargano, un nuovo equilibrio si genera, ma al ribasso per chi stava meglio prima. Il progressivo smantellamento delle barriere doganali  – che è una delle componenti del cosiddetto fenomeno della globalizzazione – ci fa vivere una specie di ritorno al passato, proprio perchè ci pone a confronto – attraverso i prodotti e i servizi di altre economie e di altre strutture sociali – con paesi che non hanno fatto i nostri stessi progressi in campo sociale. La fine dell’impiego a vita, il doppio o triplo lavoro, la pensione rimandata a sessantacinque anni, la paura delle spese per le malattie, gli studi privilegio di pochi, sono situazioni che ci riportano appena a due o tre generazioni prima di noi, e che fino a quell’epoca avevano caratterizzato tutta la storia dell’umanità. Sono però anche le conquiste che hanno fatto dell’Europa il sistema economico e sociale più ambito. Ne è prova l’afflusso continuo di immigrati clandestini, che non premono certo alle frontiere dell’Arabia Saudita, della Russia o della Cina, sebbene questi paesi abbiano tassi di crescita del prodotto nazionale lordo fino a due o tre volte superiori al nostro. Ma sono conquiste che hanno un costo, che la globalizzazione ci sta obbligando a pagare in misura maggiore di prima. Purtroppo è estremamente impopolare, anche a sinistra, dire oggi che il sistema più equo per permettersi il lusso dello stato sociale è pagare più tasse pur con stipendi inferiori, quindi con un ancor minore potere d’acquisto. Ma è l’unica maniera per costruire un’Europa “costituzionale” e non solo “liberale”.

È possibile che questa battuta d’arresto spinga i politici europei più sensibili e lungimiranti a uno scatto di fantasia e di coraggio e faccia fare alla Unione europea quel salto qualitativo che aspettiamo da tempo. Non è però di buon auspicio la divisione della sinistra, manifestatasi clamorosamente in Francia ma presente anche in altri paesi compresa l’Italia, e la convergenza tattica della sua ala comunista con la destra xenofoba che aumentano confusione e sconcerto. È accertato che in queste condizioni la destra ha sempre buon gioco. Né è di buon auspicio lo scenario inglese che si sta imponendo, anche se Blair si dice di sinistra: più lavoro per tutti, ma meno prestazioni per tutti; se vuoi un servizio lo devi pagare quello che costa; se hai bisogno di molto (cure, istruzione, assistenza), ma puoi pagare poco, avrai poco ecc. L’uscita più probabile all’impasse sul budget europeo non è che l’Inghilterra rinunci al suo sconto sull’Iva versata all’Unione, ma che tutti i paesi membri chiedano l’allineamento sullo stesso livello. Il che significa meno soldi europei da redistribuire nelle zone più povere.

Questo tipo di società si è potuto realizzare perché l’Europa ha goduto negli ultimi 50 anni del secolo scorso di due condizioni favorevoli: anzitutto, l’esistenza di vaste aree del mondo ricche di materie prime ma sottosviluppate e soggette ancora al dominio neocoloniale europeo, e in secondo luogo l’essere il baluardo contro l’Unione Sovietica e avere al suo interno alcuni partiti comunisti di massa da tenere sotto controllo.

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