GENERARE
Il dono della vita

Si esce spossati da questa battaglia fra partigiani della procreazione assistita e di quella naturale. Al momento in cui scrivo l’esito è ancora sconosciuto, ma le differenze anche più sanguinose fra i due gruppi contendenti perdono quasi di rilevanza rispetto all’idolo al quale entrambi mostrano di sottomettersi senza discussione: la procreazione appunto, la necessità di figliare. Ci si accapiglia sul modo di venire al mondo, ma che il venire al mondo – nelle forme che ciascuno giudica diversamente legittime – sia di per sé un bene non è oggetto di dubbio. La parola «nascita» si vede in perpetuo affiancata dalla parola «dono», questo resta lo sfondo uniforme delle nostre cornici spirituali. Si fa un gran parlare di culture della morte, ma paiono poco più che un’offensiva marginale e di retroguardia rispetto ad una tentacolare cultura della vita che pone ovunque il suo assedio. Posti in quest’ottica davvero non possiamo evitare di dirci cristiani, la convinzione che vita sia sinonimo di dono è tuttora lo scheletro interamente e compattamente cristiano della nostra civiltà, rivestito da una polpa sempre più scristianizzata.

Sparuti luoghi veterotestamentari ci insegnano a maledire, o quantomeno a guardare con sospetto, il giorno della nostra nascita, per il resto se vogliamo respirare l’aria della rinuncia alla vita non come scandalosa immoralità ma come parola da pronunciarsi senza vergogna, dobbiamo innanzitutto far ritorno all’anima greca, alla sentenza di Sileno che riecheggia nei tragici, che risuona lapidaria in Teognide: «Bene sommo per chi sulla terra vive è non essere nato, / né i raggi vedere del sole ardente, / e, quando si è nati, al più presto le soglie varcare di Ade / e sotto gran massa di terra giacere». Perpetuare la vita significa perpetuare la sequela ininterrotta del dolore e della morte, l’atto perennemente umano della sopraffazione, il sangue e la disperazione in cui siamo immersi. Non volere, in coscienza, tutto questo non è arida assenza di carità ma segno profondo d’affetto per le creature. Rinunciare alla volontà di vivere e non fomentarla in alcun modo, come ci insegnano Schopenhauer e i samnyasin indiani, è sapienza diretta alla radice delle cose, non semplice saggezza che si dibatte nell’ambito pratico del vivere.

Il cristianesimo ha indotto gli uomini a guardare al nascere come dono perché l’atto del nascere rispecchia e rinnova l’atto della creazione, con cui un Dio pervaso dall’amore ha dato origine alle cose, alle quali generandole ha promesso eterna accoglienza presso di sé. Pur nel dolore la vita per un cristiano è donata perché intesa alla luce della sua consolazione futura. Ma disegnando il profilo della speranza come la intendiamo oggi, il cristianesimo ha finito per illuminare i tratti della sofferenza di una nitidezza ignota in precedenza, Léon Bloy ha detto che «l’umanità cominciò a soffrire sperando». Proprio alla luce di una redenzione il patire si fa via via maggiormente intollerabile e la vita prende a manifestarsi sempre meno circonfusa d’amore e sempre più incatenata ad un «perpetuo circuito di produzione e distruzione» – sono le parole che in Leopardi la Natura rivolge all’Islandese nel famoso Dialogo. Il nostro mondo non crede più, e ha tutte le ragioni per farlo, alla salvezza cristiana, ma continua a credere nella bontà del vivere con un devoto attaccamento che privato del riferimento a quella redenzione suona stonato, perché allora il mondo non può darsi diversamente da quel cieco groviglio di patimento che ci ha svelato Leopardi.

Rischio immenso la creazione. Forse è meglio guardare ad essa privi di illusioni, assumendo su di sé l’intero peso della disperazione. I figli salveranno i padri? Non aspettiamocelo (per questo Guerre stellari è in tutto una saga di fantascienza), o comunque non contiamoci, non è mai realmente e plausibilmente accaduto nel passato.

Massimiliano Fortuna


 
 
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