BOTTA E RISPOSTA SULLE BIOTECNOLOGIE |
Non lasciatemi con i miei incubi! |
Mi pare che – se si vuole lasciare in vita il concetto di etica – non si possa far coincidere il «male» da proibire semplicemente con i comportamenti disapprovati a maggioranza. Né credo sia possibile legiferare soltanto a fini utilitaristici, cioè prescindendo da ciò che si ritiene «male» in sé. Dice Ferretti, aderendo ad un modo di pensare diffuso: «Per proibire legalmente una cosa dovrebbe esistere un consenso pressoché universale della maggioranza delle culture sul fatto che essa contenga un notevole spessore di male [...] se tale consenso non si dà siamo nell’ambito del pluralismo, [...] certo il pluralismo fa paura [...] a tutti i sistemi teocratici, come a tutti i fondamentalismi e integralismi, anche a quelli più moderati». Dicono molte leggi interne agli stati, tra cui il nostro, e molti trattati internazionali: «La pena di morte è abolita. Nessuno potrà essere condannato a tale pena e giustiziato». Non credo si possa dire che queste leggi e trattati rientrino nell’area del fondamentalismo per il fatto che sull’abolizione della pena di morte non vi è un «consenso pressoché universale tra la maggioranza delle culture». Le autorità degli Stati Uniti rispondono invariabilmente alle nostre richieste di abolire la pena di morte: sarebbe antidemocratico, perché la maggioranza della nazione è favorevole alla pena capitale. Se è così, pressoché tutti gli stati, cominciando da quelli europei, furono antidemocratici nel compiere un importante passo di civiltà: infatti nel momento dell’abolizione della pena di morte la grande maggioranza dei cittadini era favorevole alla pena capitale. Relativismo etico Per trovare il bandolo della matassa, dobbiamo forse spostare la discussione molto in alto e in avanti. E aprire gli occhi. Mentre si discute sui giornali e si fanno/disfano leggi, la biotecnologia, sospinta da enormi interessi economici, avanza con ogni tipo di sperimentazione, spesso in segreto. Ciò accade massicciamente anche nella maggiore potenza mondiale, pur retta da un’amministrazione paladina della «sacralità della vita». Subordinando sdegnosamente le considerazioni etiche alla libertà di ricerca e alla valutazione quantitativa dei possibili benefici ottenibili dalle applicazioni pratiche delle conoscenze acquisite, scienziati di prima grandezza pongono di fatto le basi per un vero relativismo etico. Non è difficile accorgersi che una tale posizione è incompatibile con ogni imperativo categorico a monte dell’aspetto materiale dell’esistenza. Segna il superamento del tradizionale concetto di etica. L’affermazione dell’hic et nunc, la riduzione del reale al conoscibile, la negazione di un mistero al contorno della vicenda umana, portano nel migliore dei casi a relativizzare il valore dell’individuo e a sostituirlo con il valore del maggior benessere per il maggior numero di persone e, nel peggiore dei casi, ad ogni sorta di abusi e di prevaricazioni. Una volta smantellato il principio etico dell’inviolabilità della vita umana, sviluppata o in fieri, non si vede perché – ad esempio – la contaminazione della specie umana (con altre specie o con le macchine: si pensi solo alla possibilità di produrre uomini con cervello animale) – anche se più disturbante nella fantasia – si debba respingere più della produzione intenzionale, per clonazione o meno, di embrioni umani da smembrare ai fini dell’ampliamento della conoscenza o di una ricerca applicata che abbia una speranza terapeutica. Benessere e qualità della vita Un dialogo potrebbe esserci sul terreno dei diritti umani? È questo a mio parere un possibile terreno comune anche se difficile, faticoso. È un terreno più vicino per la verità ad una concezione umanistica/religiosa dell’uomo (sentimenti) che ad una economicistica (benessere). Il modello di umanità oggi vincente, soprattutto nei paesi ricchi, è centrato essenzialmente sulla qualità della vita, cioè sul benessere nel momento in cui si vive. La visuale si allontana dal presente nello spazio-tempo soltanto quanto basta per rafforzare il senso di sicurezza soggettivo, condizione per lo stato di benessere. In altre parole, io mi preoccupo innanzitutto del mio benessere, ora e nel luogo in cui sto. Il potere gigantesco e affascinante dei mezzi tecnico-scientifici ed economici dissecca la motivazione per la ricerca filosofica di fondo e porta a negare qualsiasi realtà non suscettibile di dominio, che vada al di là di quanto assoggettato o assoggettabile al metodo scientifico. I grandi «interrogativi esistenziali», il senso del mistero, il timore per il «sacro», un’etica universale, una vera e profonda fede religiosa, scoloriscono e, se talvolta appaiono come tenui fantasmi, ci si affretta a rimuoverli quali paure ancestrali o allucinazioni psicotiche. L’etica si smembra in etiche ad hoc sempre più mutevoli ed effimere. I nemici lontani (da uccidere), i terroristi (da torturare a morte), i poveri del sud del mondo (da respingere), i pronipoti (a cui negare l’ambiente), gli embrioni (con cui sperimentare) e forse anche i computer con cervello umano, o «uomini» con cervello animale da smontare per ricavarne organi di ricambio, ed altre mostruosità ineffabili, possono diventare, per gradi, eticamente indifferenti. Giuseppe Lodoli La ricerca di un minimo comun denominatore Ho in genere evitato valutazioni di etica personale non perché me ne vergogni, ma per una questione di fondamentale importanza: quando si tratta di proibire legalmente una cosa non ha valore decisivo la mia opinione personale, ma la ricerca e l’individuazione di un consenso il più possibile universale della maggioranza delle culture. Non si nega che ci sia il «male in sé», ma il suo spessore più o meno grave va individuato e definito sulla base di un consenso il più ampio possibile, altrimenti si cade nell’autoritarismo, nel paternalismo, nella negazione del pluralismo e nell’imposizione del proprio punto di vista. L’enunciato può variare e subire delle sfumature, come quella di contemplare soprattutto le culture più evolute, ma il principio rimane valido, e non può essere ridotto e trivializzato a semplici colpi di maggioranza politica o ad un banale conteggio di voti. Premesso che il principio ha come suo ambito specifico la «filosofia della medicina» (un altro possibile nome per designare la bioetica) e non le sanzioni del diritto penale, l’esempio comunque della pena di morte, portato per demolire la mia tesi, mi dà invece ragione se guardiamo al reato e non alla sanzione: certi reati possono essere proibiti legalmente e sanzionati solo se vengono riconosciuti come tali, cioè nel loro notevole spessore di male (come ad esempio l’omicidio e la rapina), dal consenso pressoché unanime della pluralità delle culture. La questione della sanzione più o meno pesante (pena di morte, ergastolo, 30 anni o altro) è un secondo problema, certamente importante nell’ambito del diritto positivo, che però è di altro genere rispetto al principio bioetico di non-maleficità (gli altri tre sono il principio di giustizia, di autonomia e di beneficità, elaborati dalla bioetica negli ultimi 30 anni: cfr le 700 pagine del medico e filosofo spagnolo Diego Gracia, Fondamenti di bioetica, Sviluppo storico e metodo, S. Paolo 1993). Quindi non si è per nulla dissecata la motivazione per la ricerca filosofica di fondo, contrariamente a quanto dice il nostro interlocutore, che dimostra di non conoscere bene tale enorme sforzo filosofico di interfaccia tra l’etica e la medicina. Non si può banalizzare e svalorizzare il criterio del «maggior benessere per il maggior numero di persone»: più precisamente si tratta del «maggior bene per il maggior numero di persone», che è uno dei criteri fondamentali per il suddetto principio bioetico di giustizia. Il nostro interlocutore ha ridotto, chissà perché, il bene a benessere, per poterlo più facilmente attaccare in senso anticonsumista e antiutilitarista; e ha tradotto il criterio bioetico di «qualità della vita» ancora una volta con «benessere nel momento in cui si vive, ora e nel luogo in cui sto». Come tutte le cose di cui si può abusare, anche la qualità della vita può essere ridotta a quantità, fraintesa in senso consumista, ecc. Ma il possibile abuso non toglie l’uso. Il nostro interlocutore invece si immagina tutta una serie di possibili abusi, con scenari futuribili da fantascienza e di dubbio gusto (come i computer con cervello umano o gli uomini con cervello animale; per inciso, escludendo la corteccia cerebrale, abbiamo già un cervello «animale », in quanto condividiamo con gli animali superiori la parte sotto-corticale sino al tronco encefalico), per invalidare e bloccare l’uso di una cosa o di una tecnica: sarebbe come dire che bisogna togliere dalla circolazione tutti i coltelli da cucina perché sono stati usati per uccidere o se ne può abusare come arma. Invocare degli abusi strampalati significa essere a corto di argomentazioni valide, o comunque non riuscire (ancora) a razionalizzare, argomentando, le proprie emozioni di eventuale rifiuto. La bioetica si è costruita via via negli anni dandosi un metodo, sulla base di principi, criteri, conseguenze, diagnosi, prognosi e casi clinici ben documentati, ecc., e non sulla base delle proprie emozioni. Certo un’emozione può anche contenere un’intuizione giusta, ma va tematizzata con correttezza e sviluppata con metodo, possibilmente con delle conoscenze embriologiche e neurofisiologiche adeguate. Il nostro interlocutore inoltre equipara la produzione intenzionale di embrioni umani, «da smembrare ai fini della ricerca», con la contaminazione della specie umana con altre specie o con le macchine: nel senso che, una volta smantellato il principio etico dell’inviolabilità della vita umana, non si vede perché si debba respingere la seconda più della prima. A parte il fatto che a questa produzione «intenzionale » non siamo ancora arrivati (perché è proibita ovunque; si usano quelli congelati provenienti dalle tecniche di fecondazione artificiale, destinati comunque alla distruzione), equiparare la ricerca con cellule staminali embrionali agli «uomini con cervello animale da smontare per ricavarne organi di ricambio e ad altre mostruosità ineffabili», significa fare del terrorismo psicologico, in una visione massimalista che fa di ogni erba un fascio. Ernesto Ferretti |