PERPLESSITÀ |
Referendum laceranti e rivelanti |
Sui recenti referendum, il foglio n. 322 ha pubblicato una sola delle posizioni presenti in redazione, a causa di ritardi di cui ho colpa anch’io: preso in altri impegni, mi sono mosso tardi nell’informarmi e nel formarmi una sufficiente opinione (consapevole della sua fallibilità, non armata e corazzata). Pur nei limiti di una scelta legislativa, sentivo fortemente i temi morali e sociali direttamente implicati e ineludibili nella decisione. Pensavo che il risultato non sarebbe stato esaltante in nessuno dei tre casi possibili: fallimento, sì, no. Tutti abbiamo deplorato che la gerarchia cattolica abbia dato un ordine di voto prima di favorire una adeguata riflessione morale e politica, distorcendo il dibattito come se riguardasse la fede (complice un laicismo fratello gemello del clericalismo, impegnati insieme a togliere respiro allo spirito). La gerarchia poneva i giusti interrogativi, e intanto li eliminava con un comando conclusivo. La discussione è stata ampia, ma non bella. Ho visto molto semplicismo schematico, schieramenti di partito (anche se risultati inefficaci, giustamente), su una scelta difficile da inquadrare nella logica binaria sì/no; una scelta che non poteva essere sbrigativa e facile, né reattiva, su temi di estrema delicatezza e importanza, data la consistente incertezza delle conoscenze scientifiche e delle prospettive curative, e l’alto rischio di speculazione economica. La sinistra – con mia grande delusione, perché sono ancora ingenuo e speranzoso a settant’anni – mi è parsa più che mai cedevole verso la cultura radicale del desiderio assolutizzato, esaltato in diritto, che è cultura profondamente di destra, individualistica, che inasprisce i rapporti umani: se i nostri desideri sono opposti, cosa facciamo: la guerra? Una sinistra non abbastanza attenta ai prioritari diritti degli ultimi, anche su scala mondiale, che sinistra è? Tutto questo vale come osservazione generale, senza mancare di riguardo al desiderio più che legittimo e bello delle coppie sterili. Giusto il desiderio, ma giusti anche tutti questi mezzi? La domanda rimane, ineliminabile. Semplicismo e irrisione Le informazioni e discussioni sono state serie in alcuni ambienti qualificati, nel rispetto di ogni scelta meditata, ma ho incontrato in giro un bel po’ di riduzionismo scientista (fisica senza alcuna apertura metafisica; efficientismo che sorvola sui mezzi; scienza non sensibile ai propri limiti; il mistero della vita ridotto a problema pratico); ho sentito squalificare le opinioni diverse mediante insulto e irrisione (anche nelle vignette de «l’Unità»); un amico mi ha dichiarato che il suo criterio era fare il contrario della direttiva di Ruini. Come avevo detto, ho deciso di non sostenere né la legge né gli emendamenti referendari, ma di insistere sull’evidenziare come potevo i maggiori problemi implicati (in http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti ci sono alcuni miei interventi). Complessivamente, mi preoccupa una fede acritica nel potere tecnologico in quanto tale. In seguito a questo rilievo, è stato proposto al nostro gruppo redazionale di riprendere un serio esame critico del ruolo della tecnica nell’epoca moderna e post-moderna. Come i più in questa parte minoritaria del mondo, io godo tante comodità tecniche e vivo grazie a tante nuove tecniche curative, ma non è sulla via della saggezza l’unica mitologia rimasta, quella (volgarizzata nella volgare pubblicità) che identifica il progresso umano con le ultime frenetiche e fameliche trovate tecnologiche, dagli apparecchi tascabili a quelli spaziali, quasi l’unica eredità che il mondo degli adulti consegna ai giovani, nella scuoletta (soltanto?) berlusconiana delle «tre i». L’idea di infinito che ci è rimasta è quella individuata nella crescente potenza materiale del superhomo faber, non nel cammino interminabile dello spirito. D’altra parte, è vero che l’astensionismo è attribuibile anche al crescente timore verso un’incontrollata potenza scientifica. Otto domande Le otto domande (più le tre di Kant) che Barbara Spinelli poneva proprio il 12 giugno su «La Stampa» sono davvero sagge (ma non era giusto giudicare viltà l’astensione da quel voto), domande implicate ma sottaciute al centro di questi referendum: «Dove e quando comincia l’esistere dell’uomo, che tecnicamente prende l’avvio dalla cellula formatasi nella fecondazione? E se non è ancora persona a tutti gli effetti, l’embrione è pur sempre vita oppure non ancora? E se è vita umana, ha diritti che possono esser messi a raffronto con quelli della madre che non potendo generare decide di procreare artificialmente? E ancora, andando sempre più a fondo nello strapiombo che si spalanca: da chi e da cosa vien stabilito il confine tra persona e essere, tra vita e disegno di vita? Dall’essere umano che mette al mondo quell’inizio di esserci che si chiama embrione, o dal volere di qualcosa o qualcuno che trascende il poter-volere dell’uomo? Da quel che la scienza o la medicina son capaci di fare, e dai bisogni che tale capacità suscita? E infine: quel che è fattibile è perciò stesso anche lecito? E una volta lecito, sarà per questo anche edificante per la storia dell’uomo e la sua civiltà?». Ma questo non è stato il livello del dibattito nazionale, troppo vicino alla piccola politica e agli interessi. Che cosa fa di noi? Dopo i referendum, articoli come quello di Claudio Magris sul «Corriere della Sera», e quello di Marcello Cini su «il manifesto», entrambi del 15 giugno, toccano il problema di fondo: la scienza, che cosa fa di noi? Sbagliamo più per paura, o per incoscienza? La questione (sulla pratica stessa dell’intervento artificiale genetico) è antropologica, ben più che scientifica, medica, legislativa. La genetica, come ogni potere scientifico, o si svolge entro la cultura del limite e la forte regola morale limitatrice perché orientatrice, oppure ci distrugge. La conoscenza non è mai troppa, ma la coscienza deve orientare e limitare l’uso delle conoscenze. Magris ha ragione nel richiamare Oppenheimr, Szilard, Einstein: massimi scienziati dotati della coscienza del limite, perciò levatisi contro il potere illimitato (assoluto, totalitario, atomico, omicida, genocida: Hiroshima è della stessa specie di Auschwitz, ma su Hiroshima si è meditato di meno, perché è il delitto dei vincitori). L’uomo senza limite si disgrega insieme all’atomo. Il potere, la tecnica, che hanno solo se stessi come misura, sono distruzione. La cultura del limite è salvezza. Il limite dei limiti è la morte. Non abbiamo salvezza se vogliamo eludere la morte: la guerra è essenzialmente paura della morte (Semelin; Muller), e dunque la folle illusione di scaricarla sugli altri, fuori di casa nostra (Fornari), moltiplicandola e erigendola a divinità regina della storia. Il limite rispettato – anche la morte – è la «cifra» (Jaspers) di ogni vera apertura. La vocazione umana è all’infinito, non nell’ordine della potenza che sfonda, ma nell’ordine dello spirito che affina. Il problema epocale della tecnica, tecnologie, tecnocrazie, non si pone in nome dell’arcaismo, ma di una crescita umana che possa essere umana. Lo spirito è il potere senza potere, è la possibilità delicata e mite, non l’imposizione; è la liberazione, non il liberismo. La realtà e l’azione spirituale si moltiplicano e si arricchiscono nel condividersi tra tutti, al contrario della realtà materiale e dell’azione e potere fisico, che si scontrano escludendosi. Lo spirito offende solo la potenza gretta che lo rifiuta, e perciò uccide i profeti. La nonviolenza profonda, che è cultura spirituale, ha da dire e da fare molto in direzione della capacità umana mite e creatrice, che Gandhi e Capitini hanno certamente indicato, e prima di loro tutti i grandi maestri spirituali dell’umanità. Quelli che hanno davvero tracciato il progresso. Enrico Peyretti |