DIBATTITO |
Siamo salvi. Oppure no? |
Una serie di articoli teologici, certamente seri e profondi, sembrano, almeno a me, non tener conto sufficiente di qualche aspetto della nostra fede cristiana. Sembrano dire, quegli articoli, che la mancata realizzazione storica delle promesse bibliche ed evangeliche (che comprendono anzitutto persecuzioni ed emarginazioni) significhino la «sconfitta di Dio» (titolo di un libro di Sergio Quinzio, che lessi bene), lo smarrimento della sua parola da parte delle chiese, l’impotenza stessa di Dio a mantenere le sue promesse e la sua incapacità di salvarci dal male e dal non senso, ridotto a disperare con noi. Se fallimento del cristianesimo significa caducità delle sue forme storiche; se, assai meglio, significa il carattere “cruciale” – centralità della croce di Cristo, schiacciato e scacciato dal mondo – allora è ciò che la fede autentica sa da sempre, sapendo anche che la croce non ha l’ultima parola. Se significa porre la speranza e la fede al di là della disperazione, passaggio spesso eluso dalla religione consolatoria, allora è fede evangelica. Se significa denunciare quel «cristianesimo senza Cristo» degli «atei devoti» che, complice spesso la chiesa ufficiale, oggi fanno del cristianesimo la religione civile del mondo “evoluto” e ricco, utile a giustificare l’esistente con tutte le sue nefandezze, allora è grande servizio alla fede. Ricordare questo alla religione è essenziale perché sia cristiana. Buon annuncio Ricordiamo anche che il vangelo di Gesù è davvero un «buon annuncio»: annuncio a noi disperati, o illusi da speranze fallaci, che è realmente entrato nel mondo, ed è in mezzo a noi, il regno di Dio, cioè il modo di vivere che Dio sogna per noi, un vivere che ci trae fuori dal male e dal nulla. Il vangelo è severo e disilluso, promette la croce, ma è un eu-angelion (annuncio di un bene) e non un kak-angelion (annuncio di un male, di un fallimento del bene). Ciò che annuncia è una realtà veniente, non una improbabile utopia. Una realtà, tuttavia, non registrata dagli annali mondani, non affermata coi metodi mondani dell’imporsi e del vincere, ma che vive come il seme che germina dopo essere marcito nel terreno, come Gesù crocifisso e sempre vivo e parlante ai cuori. Riconosce e vede questa realtà, con l’occhio della fede, chi «ha orecchi per intendere» perché gli è stato donato di trovare in sé quella «luce che illumina ogni uomo» (Giovanni 1,9). La fede non è solo un cannocchiale per il cielo, ma anche un occhio per capire la storia. Chi ha fede vede il vivere evangelico germogliare in sé e attorno a sé, pur in mezzo al male interiore ed esteriore, e non lo vede ma lo vive chi, senza fede, ha volontà buona. Nel giudizio annunciato in Matteo 25, chi avrà servito il suo prossimo scoprirà di aver vissuto nel regno di Dio. Le generazioni di cristiani che ci hanno preceduto, senza la cui fede non sapremmo nulla di Cristo, in massima parte poveri, oppressi e sofferenti, non persero la pazienza della speranza, amarono gli umili e gli infelici, riconoscendo e venerando in loro, con l’intelligenza della carità, tutta la dignità che il mondo, ieri come oggi, nega agli ultimi. Le loro forme di culto, le loro teologie e teocrazie non possono più essere le nostre. Che importa? Il cammino della fede nel tempo avviene nei poveri, assai più che nei teologi e nel magistero. La fede cammina nonostante ignoranti e sapienti. Questa fede non si è perduta. Siamo discepoli di quei poveri credenti. Dovremo certamente riformularla, ma non saremo noi a salvarla. Non siamo al punto zero. Il vangelo di Gesù è ugualmente la croce e la pasqua, né questa senza quella, né quella senza questa. A chi vorrebbe la pasqua senza croce, il discepolo fedele ricorda la croce. A chi vede la croce senza pasqua, lo stesso discepolo annuncia la pasqua. La notizia di Gesù non termina nella croce, come non arriva alla pasqua senza passare dalla croce. Il suo fallimento non è senza riscatto e vittoria, l’unica vittoria giusta, perché è vita che vince la morte, dopo averla accettata per fedeltà alla vita, per solidarietà totale con le sofferenze degli ultimi e umiliati. Nella sua croce c’è più coraggio e vita che sconfitta, perciò la croce stessa è speranza, nel momento della nostra croce. «Viene il Regno di Dio» è il primo annuncio. Falso annuncio? Annuncio perduto? Non siamo senza segni Vale ancora nel mondo attuale, che tutto ha smontato e fa crollare ogni appoggio? La storia non è abbandonata da Dio, se noi non abbandoniamo Dio, se non cessiamo di affidarci, di pregare, di operare per la giustizia. Non siamo senza segni. Il fatto che noi non ci adagiamo rassegnati nella disperazione – mentre ci sono continue pesanti ragioni per disperare, nel bel mezzo di questo mondo feroce omicida – è la vittoria del regno di Dio, invisibile ai potenti, è la pasqua di Cristo che si realizza in noi, che lo sappiamo o no, che possiamo gioirne psicologicamente oppure no. Il fatto che vediamo l’onore e la bellezza degli schiacciati dalla storia, e vogliamo difenderli e liberarli (in questo mondo, non solo in un altro), e che ciò possa parzialmente avvenire, è la luce di Dio nei nostri occhi. Il fatto che noi non abbandoniamo la storia alla rovina che sembra spesso meritare e volere, è segno della forza tenace dell’amore di Dio che attraversa le nostre mani, i nostri pensieri e le nostre fatiche. Il fatto che noi non sottostiamo al clima endemico di paura aggressiva è segno che ci è donato un più forte motivo interiore per una «fiducia di fondo» (Hans Küng, in Dio esiste?, Mondadori, 1978) verso l’esistenza. Il fatto che, per grazia di Dio, nella sventura non malediciamo del tutto la vita, e che nella morte non disperiamo completamente della vita, è segno che Dio soffre e spera (e non dispera) con noi. Il fatto che non accettiamo sbrigativamente di difendere la nostra vita e beni col dare la morte, né che altri uccidano per noi, è segno che qualche prospettiva di giustizia e di vita più forte della morte e libera dalla morte è stata posta nel nostro cuore. Il fatto che noi non rispettiamo la legge della guerra – che per Bush è un blasfemo mandato divino – è segno che, da poveri peccatori, seguiamo nella storia le orme del vero umile pacifico Messia della pace. Ci ha salvato Non vi sembrino indebitamente misticheggianti le righe seguenti. Dio non ci salva? Ci ha già salvato. Quando ci ha insegnato ad amare chi non ci ama, come ha fatto lui, ci ha sottratto alla morte, ad ogni male, ad ogni violenza, ad ogni caduta, e ci ha fatto creatori di un mondo come Dio lo ha sognato, al di là della delusione che ha patito dall’umanità. Se anche una sola volta nella vita amiamo chi non ci ama, siamo noi stessi creatori e salvatori della storia e di tutto ciò che è. Se una sola volta, in mezzo ai nostri peccati, abbiamo messo amore dove c’è odio, dato bene a chi ci dà male, siamo più grandi del mondo, siamo simili a Dio, nella nostra miseria illuminata, amata da Dio fattosi misero con noi, senza perdere la sua luce di vita. Certo, tutto passa non per la via del trionfo del bene, non per la via del potere ecclesiastico benefico, non per la via della cancellazione del male, ma per la via dell’abbassamento, della scomparsa, della sconfitta. Se anche la morte ci seppellisse senza alcun oltre, saremmo già nell’oltre avendo amato chi non ci ama. Per aver regalato un bicchier d’acqua (per non dire di vino...) non andremo in paradiso, ma ci siamo già. C’è forse uno sconfitto più sconfitto di colui che ama il nemico? C’è forse trionfatore più trionfatore del violento che si trova contrastato solo con l’arma innocua dell’amore? Eppure, quello non è sconfitto e questo non trionfa. Perché ciascuno, appena aprirà gli occhi, vedrà che il vinto per amore è il vincitore, che l’ucciso in croce è il vivente, che il vincitore violento stringe in mano il nulla. Come l’etica è la filosofia prima (Levinas), così il vangelo dell’amore è la prima teologia. Sappiamo di Dio quello che di lui viviamo, non quello che ne pensiamo, per quanto questo sia importante. Cosa pensiamo della sfida di Dostoevskij: «Tra Gesù e la verità [quella che ci pare verità] sceglierei Gesù»? Se non tengo fissa davanti agli occhi, da peccatore, la prassi evangelica al di sopra della teologia più rigorosa, so che prima o poi perderei Gesù. Pensare Dio richiede molto coraggio, al di là delle facili immagini che ce ne facciamo e che la religione spaccia utilmente, ma non vale molto se non trova in Dio il coraggio e l’audacia di vivere e impegnarsi nel mondo redimibile. «Nella speranza siamo stati salvati» (Paolo ai Romani, 8,24). Enrico Peyretti |