CINEMA
Un cupo tramonto

La caduta, sugli ultimi giorni di Hitler nel bunker, è un film da vedere. Naturalmente gli sono state fatte mille critiche, perché alle critiche si presta giocoforza ogni film su Hitler – non sono molti del resto: sul medesimo tema ne esiste uno di Pabst degli anni Cinquanta e un altro, con Alec Guinnes nella parte di Hitler, dei primi anni Settanta di Ennio De Concini; poi non si può non ricordare il fluviale Hitler, un film dalla Germania di Syberberg, un film di impianto teatrale, sorprendente meditazione sullo spirito nazista. C’è chi come il sempre più inascoltabile – ed inguardabile – Wenders ha lamentato un’eccessiva sottolineatura del lato umano, cosa che corrisponderebbe ad una forma di ammorbidimento, uno sguardo indulgente. Ma il film tenta semplicemente di ripercorrere quei giorni con occhio cronachistico fondato su di una ricostruzione storica esatta. Si vede Hitler che mangia e dice che il cibo era buono ad esempio, sono cose come queste che sono spiaciute a Wenders. Insomma, le consuete fastidiose semplificazioni del progressismo virtuoso, che si sente sempre al riparo dentro il proprio fortino morale, sempre pronto alla denuncia indignata, ed a proiettare nel male una monolitica compattezza che ovviamente non possiede. Siccome Hitler è un simbolo dell’orrore va raffigurato di continuo in procinto di immergersi le mani nel sangue o qualcosa del genere? Ci si aspetta che mangiasse ragazzini tutte le sere? Per non parlare della Cavani: «Viene mostrato un Hitler patetico, non ho apprezzato la mancanza del senso di colpa. È un film superficiale riguardo alla “persona tragica” e alla responsabilità del Führer nei confronti della storia. Non esiste la svolta, l’inversione del pensiero. Hirschbiegel ha costruito un personaggio paranoico. Qual è, mi chiedo, il messaggio che arriva oggi alle nuove generazioni?». Qual è il messaggio del regista – esiste un modo più insopportabile di parlare di un film? La battuta di risposta è vecchia quasi quanto il cinema: se bisogna mandare un messaggio si chiama il postino.

L’arte non va d’accordo con nessun moralismo, ma anche con nessuna morale, per il semplice fatto che non le si dà vita seguendo direttive morali. Si crede evidentemente che la rappresentazione di quel che tocca il mistero, e allo stesso tempo la banalità, del male debba sempre essere accompagnata dalla sua condanna manifesta, da un chiaro «messaggio» in cui si esplicita che certe cose sono orribili, da una sottolineata «presa di posizione», altro ammonimento di Wenders. Peraltro nel finale del film – forse un po’ pleonastico e posticcio – questa presa di posizione contro il nazismo c’è, ma il punto è che la sfida della narrazione di quegli eventi consiste proprio nel tentativo di far emergere il male dalla sua normalità, dal suo essersi sedimentato nell’umano, nella compenetrazione di quotidianità e catastrofe, di orrore e abitudine, in una miscela di indifferenza ed esaltazione.

Hitler nel film è descritto come, probabilmente, appariva o è apparso in quei giorni, a sentire le testimonianze dirette. Non c’è nessun sguardo indulgente su di lui: scoppia in scenate isteriche, rivendica la carneficina degli ebrei, invita a non provare compassione, si compiace di non provarne per il popolo tedesco. Del resto l’intenzione non è quella di spiegare il fenomeno del nazionalsocialismo, ma dare uno scorcio della sua fine (il titolo originale, der Untergang, letteralmente significa il «tramonto»), tentando di affrontare l’orrore di quei giorni con una sorta di oggettività. Qualcuno ha sostenuto che l’intreccio e l’impianto visivo ricordano una fiction: un’osservazione non del tutto fuori registro (per alcune cadenze narrative, per certi movimenti di macchina, e qualcos’altro), ma che non coglie completamente la natura della pellicola, la quale non svapora in un drammone finto, in cui ogni rilievo tragico della storia si attenua e svanisce. Manca quella sorta di ovattata neutralità di cui le fiction televisive trasudano: la loro visione finisce per risultare sempre rassicurante, fondamentalmente apollinea e didattica, mentre qui si agita ben più sovente un insinuante disagio.

Colpisce anche una rappresentazione del «disfacimento», che non si è vista troppo spesso al cinema: la caduta è una caduta avvolgente che sembra invadere tutto, incarnarsi in buia disperazione, con la guerra, mostrata senza indulgenze, con la normalità della morte, con una sorta di ottusità demoniaca che accomuna quasi ogni discorso all’interno del bunker. Anche sul rapporto tra il bunker e la realtà esterna ci si può soffermare. Fuori il dolore è al massimo della sua concretezza carnale, come nella più immediata concezione che possiamo avere dell’inferno: c’è la vita reale che patisce; dentro c’è la caricatura della vita, in una sua folle astrattezza, nei propositi di spostamenti immaginari di truppe, in discorsi paranoici, nelle smanie di festeggiare di Eva Braun, e in cui anche il morire quando arriva, arriva nel modo più anestetizzato possibile, quasi senza dolore, con il cianuro o una pallottola in testa.

M.F.


 
 
[ Indice] [ Archivio] [ Pagina principale ]