Editoriale
La discussione con alcuni amici a proposito dell’articolo sull’eutanasia (il foglio
n. 277) mi ha convinto che può essere utile affrontare il problema da un punto di vista diverso.

Intanto bisogna sgombrare il campo dall’equivoco indotto dall’uso comune del termine «eutanasia». 

Il fatto che con eutanasia si intenda l’intervento teso a procurare la morte rapida ed indolore ad un malato incurabile, rende praticamente impossibile affrontare questo tema nel suo senso primario, vale a dire come accompagnamento, medico e sociale, alla «buona morte».

Qualcuno potrebbe osservare che è il binomio «buona morte» a risultare stridente e difficile da accettare. La morte sarebbe, infatti, sempre cattiva, una sconfitta, la negazione della vita. La pretesa di poterla rendere «buona» apparirebbe, contraddittoria e potenzialmente foriera di una visione nichilista della vita stessa, una visione in palese contraddizione con la fede religiosa nella bontà del creato e con la fiducia laica nella positività della natura.

Nulla di più ideologicamente fuorviante. Se è vero, infatti, che le religioni che si richiamano alla Bibbia considerano la vittoria sulla morte come una speranza irrinunciabile e che molti non credenti sentono la morte come un male intollerabile, è anche vero che tanto gli uni quanto gli altri sanno che la condizione mortale non è solo duro destino storico e terreno, ma anche compito ineludibile, che è tanto più degnamente vissuto quanto più coscientemente e serenamente affrontato.

Morire non è una condanna, una catastrofe che colpisce dall’esterno; è l’inalienabile, personalissimo, ultimo atto del vivere, e del vivere chiede di avere un briciolo di dignità.

Ecco perché si può, anzi si deve, parlare di «buona morte», di eutanasia, non nel senso fuorviante e restrittivo di accorciare la vita dei moribondi, che al limite non potrebbe esserne che il senso più estremo e già indice di fallimento, ma nel senso di seguire il percorso alla morte di chi alla morte è ormai inevitabilmente avviato, e seguirlo con opportune cure mediche di sollievo, e con l’assistenza, il consiglio, la compagnia dei familiari e degli amici.

Non si creda che questo non comporterebbe modifiche sostanziali nella nostra pratica medica e nel nostro modo di trattare i malati. Esigerebbe innanzitutto che i medici e i familiari di fronte al malato che si avvia alla morte smettessero di nascondergli la verità e di spingerlo a tentare disperatamente qualsiasi strada che possa prolungargli la vita di qualche giorno, anche a costo di nuove e più grandi sofferenze. Ma ancor più chiederebbe che tutta l’impostazione e l’educazione sanitaria, soprattutto nel confronto delle persone che hanno raggiunto e superato la maturità, tenesse sempre ben presente che l’ideale della salute non è non morire, ma accostarsi alla morte lungo il percorso meno distruttivo possibile.

La vera tragedia della morte sta certo nella cessazione e nella scomparsa della vita, ma a questa tragicità inevitabile fanno spesso corona altri aspetti altrettanto drammatici, quali l’ottundersi della vita stessa in perdita di coscienza e in condizioni spaventose di sofferenza e di demenza, che è compito della medicina evitare o almeno ridurre al minimo.

Oggi la medicina fa cose che un tempo era impossibile pensare. Presto ci avvieremo al punto in cui le sarà possibile evitare un grande numero di morti, a prezzo, però, di sopravvivenze spesso puramente vegetali o ridotte ad incerti barlumi di coscienza. Ecco, allora, che qualcuno chiederà perché non spegnerle, quando il vero problema è quello di non produrle.

È chiaro che questo non significa non curare chi è in pericolo di vita, sia quando c’è qualche ragionevole speranza di salvezza, sia quando non c'è. Significa avere sempre ben presente che non tutto ciò che è fatto per salvare materialmente la vita è giustificato e giustificabile, se ha l’alta probabilità di precipitarla nel marasma dell’incoscienza o nell’inferno del dolore senza fine. Significa inoltre che il malato incurabile non va abbandonato perché la medicina non sa più che fare per restituirgli la salute, ma va seguito con la massima attenzione medica e familiare fino a che non abbia cessato di vivere.

Vincere la morte non significa solo strapparle una vita, ma anche rendere la sua fine meno tragicamente distruttiva. Avere cura del morire è avere cura del vivere.

a.b. 

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