Editoriale |
Leggere e scrivere: più o meno quello che noi del foglio cerchiamo di fare - con tutti i nostri limiti - da trent’anni. Questo era il tema dell’incontro che si è svolto il 10 maggio nella nuova (e bella) libreria Torre di Abele, a Torino, in occasione dell’anniversario. Hanno svolto una breve relazione il pastore valdese Giorgio Bouchard, don Ermis Segatti, incaricato diocesano per la cultura, e Brunetto Salvarani, direttore di Tempi di Fraternità e di Qol. Hanno mandato un saluto, assenti, Giorgio Calcagno, Adriana Zarri e Enzo Bianchi.
Enrico Peyretti, il direttore, dopo aver ricordato tra le altre riviste nostre coetanee Tempi di fraternità, appunto, e il manifesto, ha rivolto un pensiero ai redattori che nel frattempo ci hanno lasciati: Edilio Antonelli, Gian Michele Tortolone e padre Bernardino Pozzi. Il pubblico, non numerosissimo, ha seguito con attenzione e partecipazione, intervenendo alla fine in un breve dibattito. Nei prossimi numeri pubblicheremo poco alla volta le relazioni e gli scritti che ci sono arrivati. Cominciamo ora con il testo di Salvarani, intitolato «Tra il leggere e lo scrivere, l’ascoltare». È importante leggere. È fondamentale saper scrivere. Lo ripetiamo continuamente, noi educatori, noi insegnanti, noi giornalisti, noi tutti postmoderni. Lo ripetiamo spesso, ed è difficile poter sostenere il contrario (tanto più nella città che è sede della Fiera del Libro...). Eppure, tornando ai due verbi da cui abbiamo preso le mosse, è impensabile riuscire a leggere se non si sa ascoltare, mentre lo scrivere potrebbe risolversi in un puro sfogo solipsistico (utile individualmente, è ovvio, ma anche monco, a mio parere) se non c’è disponibilità ad ascoltare. Attualmente, ancora molte donne e molti uomini scrivono, anche se forse sono in diminuzione rispetto al passato, e ancora molti leggono, pur anche questi in grave calo (perlomeno se parliamo di lettura in senso tradizionale, vale a dire di lettura di testi scritti, perché la riflessione cambierebbe alquanto se vi aggiungessimo la lettura delle immagini, di gran moda): ma soprattutto pochissimi ascoltano. Gli uomini e le donne della Bibbia raramente leggono, e raramente scrivono (si pensi allo stesso Gesù, cui è attribuita dai Vangeli una sola frase per iscritto, che non conosciamo, e per di più tracciata sul labile solco della sabbia...), ma tutti, o quasi, ascoltano, e/o sono disponibili ad ascoltare: ad ascoltare la parola dell’altro, il richiamo dell’amico, la voce di Dio, la canzone del creato, o la poesia del silenzio. Dall’ascolto nascono le relazioni e i rapporti interpersonali, dall’ascolto sgorga la passione amorosa, dall’ascolto dei bisogni altrui deriva la corretta azione politica: ma noi fatichiamo, ogni giorno di più, ad ascoltare, e persino ad ascoltarci (se non sappiamo ascoltarci, è considerazione ovvia ma non banale, non sapremo neppure ascoltare gli altri). Questa è la grande distanza che ci separa dalla gente della Bibbia, dagli uomini dell’ascolto (più che della visione)! Accanto all’educazione al leggere e allo scrivere, occorrerebbe dunque oggi - mi pare - investire fortemente nella formazione all’ascolto, ad ascoltare e ad ascoltarci, pena il rischio di ritrovarci tutti a subire passivamente la nostra esistenza come monadi mute o dementi, incapaci di comunicare qualunque messaggio a chicchessia. Esperienze (ormai storiche) come quelle de il foglio testimoniano la volontà irriducibile di creare luoghi e occasioni di ascolto, in cui il leggere e lo scrivere ritrovino un senso compiuto e aperto.E dimostrano la lucidità a suo modo profetica delle considerazioni di Roland Barthes, appunto, sul significato della scrittura: «Scrivere vuol dire far vacillare il senso del mondo, disporvi una interrogazione indiretta alla quale lo scrittore, per un’ultima indeterminazione, si astiene dal rispondere. La risposta è data da ciascuno di noi, che vi apporta con la sua storia, il suo linguaggio, la sua libertà; ma poiché storia, linguaggio e libertà cambiano all’infinito, la risposta del mondo allo scrittore è infinita: non cessa mai di rispondere a ciò che è stato scritto al di là di ogni risposta: affermàti, poi messi in in contraddizione, quindi rimpiazzati, i sensi passano, la domanda rimane...». Grazie, dunque, per tutte le domande che mi avete suscitato mantenendole aperte, per tutti i dubbi e le contraddizioni, per tutta la passione e tutta la rabbia... In una società, come quella nostra occidentale, dominata dal virtuale e dalla mobilità, una storia come questa, una storia come la vostra di scrittori e anche nostra (di lettori), rappresenta un consolante segnale che - nonostante tutto - è ancora possibile inventarsi uno spazio (scritto e leggibile) nel quale esercitare la faticosa arte del pensiero critico, della non subalternità ai modelli antropologici e sociali vincenti, della paziente e fragile tessitura di parole e concetti non banali... oggi senza più l’illusione di rovesciare da cima a fondo il mondo o le chiese o la vostra città, Torino, ma almeno di renderli più umani, più “ascoltabili”, più disponibili a mettersi in gioco.A costringerli - come fece il vostro magnifico poeta canavesano, il mio amato Guido Gozzano - a far cozzare l’aulico col prosaico, a far rimare «Nietzsche» con «camicie»... Ecco: tra le non poche caratteristiche che, simpaticamente, mi sento di invidiarvi, c’è proprio il radicamento e la grande passione per la vostra città e per la vostra chiesa torinesi, e la straordinaria capacità di ascoltarne le pieghe più nascoste, le dinamiche meno scontate, i tratti meno folkloristici e più complessi.Vorrei dire che dovremmo tutti riprendere ad abitare le nostre città e i nostri paesi ascoltandoli, ascoltando le voci più disparate che ora vi sono parlate, ascoltando le musiche, le chiacchiere, le sofferenze, le risate, le storie, i giochi. Solo ascoltando, si può leggere e scrivere. Solo ascoltando, si può credere alla possibilità di risorgere. Parafrasando, insieme a voi, un bel proverbio latinoamericano: ascoltando, si apre l’ascolto. Brunetto Salvarani |